lunedì 16 giugno 2008

IL REATO DI IMMIGRAZIONE CLANDESTINA


Roberto Ormanni

Il reato di immigrazione clandestina previsto dal disegno di legge che il governo Berlusconi ha presentato al Senato costerà 31 milioni di euro l’anno. E’ la stima, ottimistica, per il 2009 riportata in chiusura dei venti articoli di cui è composto il Ddl.

I fondi serviranno per affrontare i costi della detenzione in carcere dei clandestini arrestati e le spese di giustizia. Nessuna previsione è stata invece fatta per le somme necessarie a liquidare gli avvocati difensori degli immigrati clandestini. I firmatari del disegno di legge sembrano aver dimenticato che l’ordinamento giudiziario italiano prevede che la spesa del difensore venga sostenuta dallo Stato quando l’imputato non ha reddito. Ed è scontato che un immigrato clandestino sia senza reddito. Dunque, gli spetta il gratuito patrocinio, ossia l’avvocato d’ufficio pagato dallo Stato.

E’ questo uno degli aspetti controversi del Ddl: se queste stesse risorse finanziarie venissero impiegate per organizzare controlli più serrati alle frontiere e per rimpatriare i clandestini, forse il problema si potrebbe risolvere senza caricare il peso di migliaia di nuovi processi sul carro, già traballante, della giustizia.

La questione sarà affrontata nel corso del dibattito parlamentare, prima a Palazzo Madama e poi a Montecitorio.

Il Ddl prevede la condanna da sei mesi a 4 anni di reclusione per il reato di immigrazione clandestina. Secondo la nuova norma, l’arresto dell’immigrato è obbligatorio e il processo dovrà essere celebrato con rito direttissimo (ossia senza passare per la fase delle indagini del pubblico ministero e dell’udienza preliminare). Dopo la sentenza il giudice deve ordinare l’espulsione dello straniero.

Ma il problema dei costi del nuovo reato non è l’unico che dovrà essere affrontato dal dibattito parlamentare. Al di là delle perplessità politiche che l’opposizione, e anche la Chiesa, avanzano sulla legge, sono in molti i giuristi ad avere qualche dubbio sulla legittimità costituzionale della norma in discussione.

Se da un lato i costituzionalisti lasciano aperta la possibilità per il legislatore di introdurre un reato di immigrazione clandestina (sebbene a determinate condizioni), dall’altro sono quasi del tutto concordi a ritenere illegittima l’eventuale aggravante della clandestinità da applicare agli altri reati. In pratica, l’aumento di un terzo della pena prevista, ad esempio, per il furto, la rapina, lo spaccio di droga. Quando a compiere il reato sia un clandestino, non piace ai giuristi. Una “levata di scudi” che preannuncia fin d’ora ricorsi alla Corte costituzionale se la legge dovesse essere approvata, aggravante compresa.

Abbiamo provato ad “anticipare” il possibile giudizio della Consulta chiedendo un’opinione ai tre costituzionalisti, due ex presidenti della Corte costituzionale e il presidente dell’Associazione italiana costituzionalisti.

Sul reato di immigrazione clandestina e sull’eventuale aggravante della clandestinità, ecco come la pensano il presidente emerito della Corte costituzionale Renato Granata, magistrato di lungo corso ed ex primo presidente della Corte di Cassazione, Valerio Onida, professore di Giustizia costituzionale all’Università degli studi di Milano e presidente della Consulta dal settembre 2004 al gennaio 2005, Alessandro Pace, presidente dell’Associazione italiana costituzionalisti e professore di Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma.

La sentenza che i tre giudici costituzionali firmano al termine di una non semplice camera di consiglio virtuale si rivela, di fatto, una bocciatura per l’iniziativa legislativa del governo. Uno stop che però concede alcuni “spazi di manovra”.

Due su tre votano contro la legge, dichiarandola incostituzionale.

L’unico voto che, di fatto, dà il via libera al progetto del governo viene dall’ex presidente della Corte, Renato Granata che, in particolare, contesta senza mezzi termini una delle ragioni che “il fronte del no” mette a sostegno dell’incostituzionalità della norma in discussione.

“Fonti autorevolissime – ammette l’ex presidente emerito della Consulta – hanno negato la legittimità costituzionale, di per sé, dell’eventuale introduzione nell’ordinamento italiano della nuova fattispecie di reato di «immigrazione clandestina», per la ragione che tale condotta avrebbe a priori natura di illecito amministrativo”.

“La perentorietà dell’affermazione – dice Granata – suscita qualche perplessità. Si apprende sui banchi dell’Università – ricorda con un filo d’ironia il magistrato – che sotto il profilo formale è reato il fatto per il quale il legislatore ritiene necessaria, in ragione del suo disvalore sociale, la irrogazione di una «pena criminale»”.

“Al fondo della incriminazione penale – sottolinea l’ex giudice costituzionale – vi è dunque sempre una scelta discrezionale del legislatore legata alle condizioni sociali del momento storico dato, costituzionalmente censurabile sotto il profilo sostanziale secondo il parametro della palese irragionevolezza del sotteso giudizio circa la ineludibilità del bisogno di tutela penale”.

“La risposta al quesito circa la legittimità dell’eventuale repressione penale dell’immigrazione clandestina – conclude Granata – quindi, va data sulla base della valutazione circa l’indispensabilità di siffatta misura in ragione del livello di gravità dell’allarme sociale provocato dal fenomeno nel dato momento storico, nonché delle sue prevedibili ricadute sul funzionamento «sistema giustizia», e non certo in base ad una apodittica qualificazione ontologica della natura meramente amministrativa del fenomeno stesso”.

Anche rispetto all’ipotesi dell’aggravante il presidente Granata si mostra favorevole: “Con riferimento in particolare, poi, alla possibile valenza di circostanza aggravante nel caso di reati comuni commessi da immigrati irregolari, la situazione di clandestinità in cui questi versano è sufficientemente distintiva rispetto agli altri autori dei medesimi reati per escludere il sospetto di violazione del principio di uguaglianza”.

Una posizione che non trova concordi gli altri due giuristi che, tuttavia, sono d’accordo sulla possibilità di introdurre un reato di immigrazione clandestina. Dove però, ciò che può essere punito è l’ingresso senza permesso nel territorio dello Stato, e non la permanenza. Una differenza che l’ex presidente Valerio Onida spiega con chiarezza.

“Sul reato di «ingresso illegale nel territorio dello Stato» va innanzitutto precisato – dice Onida – che non si tratta del reato di “clandestinità” perché ciò che è punito è solo l’ingresso illegale: la norma non riguarderebbe chi entra in Italia legalmente e poi non si munisce del titolo di soggiorno o lo perde. Come pure non riguarda i cittadini comunitari”.

Ma anche in questo caso il presidente emerito della Consulta non è convinto: “Due sono le obiezioni a tale reato. La prima di ordine pratico riguarda l’efficacia della norma: se uno straniero viene fermato dopo aver fatto ingresso in Italia, dovrebbe essere respinto. Non si capisce perché dovrebbe essere invece arrestato, portato davanti ad un giudice per essere condannato e poi espulso. In pratica, si metterebbe in moto una spirale di carcerazioni, processi che andrebbe ad ingolfare la macchina giudiziaria”.

“La seconda obiezione – prosegue Onida – è di carattere generale, riguarda l’appropriatezza dello strumento penale per combattere un fenomeno di massa, quello dell’immigrazione illegale, che può essere affrontato dallo Stato con altri strumenti: attraverso una politica di controllo ragionevole dei flussi legali e mediante la lotta al lavoro nero che si avvale spesso proprio di clandestini”.

Fermo il no del professore Onida all’ipotesi dell’aggravante: “Per quanto riguarda l’aggravante della clandestinità si tratta di circostanza generica comune collegata ad una situazione soggettiva del reo e non ad una condotta penalmente rilevante, perché l’essere irregolare sul territorio di per sé non è reato”.

“In questo caso – conclude il presidente emerito – si opera una discriminazione fra persone in ragione dell’origine nazionale e di condizioni personali, vietata dagli articoli 2 e 7 della Dichiarazione Universale, dall’articolo 14 Cedu e dall’articolo 3 della Costituzione”.

Se la posizione contraria di Onida è quella più radicale, il professore Pace è invece possibilista, a patto però che l’eventuale aggravante sia strettamente connessa al reato di ingresso clandestino vero e proprio. Sul quale, tuttavia, anche il presidente del costituzionalisti italiani mostra qualche dubbio.

“Da un punto di vista strettamente costituzionale – dice Pace – non dovrebbero esservi perplessità, in via di principio, a che siano previste sanzioni penali per chi si introduca clandestinamente in Italia, in quanto ogni Stato esercita la sovranità sul suo territorio, e quindi ha tutto il diritto di disciplinare le forme di ingresso su di esso da parte di cittadini stranieri, e di farle rispettare”.

“Chi ritiene che debba essere comunque data accoglienza anche a chi si introduca clandestinamente nel nostro Paese – sottolinea il professore – evidentemente si muove da rispettabilissime considerazioni d’ordine morale o religioso, ma che nulla hanno a che vedere con la nostra Costituzione. Questa, al terzo comma dell’art. 10, prevede sì il diritto d’asilo, ma solo per lo straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana»”.

“Inoltre – aggiunge il presidente Pace – a parte il rilievo che una cosa è la richiesta di asilo politico da parte di isolati individui, altra cosa è l’asilo come fenomeno di massa, è lo stesso art. 10, comma 3 Cost. che dispone che è il legislatore ordinario a dover stabilire quali siano «le condizioni» perché alla richiesta di asilo si debba rispondere positivamente”.

Il professore Pace chiude con un no all’aggravante: “Dubbi di costituzionalità sorgerebbero invece qualora il legislatore, pur non prevedendo una sanzione penale per chi si introduca clandestinamente nel territorio nazionale, considerasse la clandestinità come una circostanza aggravante del reato commesso (furto, rapina, lesioni personali ecc.)”.

“E le ragioni delle perplessità – spiega – sono le seguenti: se l’ingresso clandestino non è qualificato dal legislatore come un illecito penale, esso costituisce un fatto penalmente lecito; ma se è un fatto lecito non può evidentemente costituire una circostanza aggravante del reato. Così facendo il legislatore violerebbe il principio di razionalità/ragionevolezza (art. 3, comma 1 Cost.), e la Corte costituzionale non avrebbe difficoltà a dichiarare l’incostituzionalità di tale norma”.

Il legislatore è avvertito: la corazzata anti-clandestini che il Parlamento si appresta a varare, nonostante le difficoltà politiche, indipendenti dalle osservazioni dei giuristi, potrebbe naufragare al primo ricorso alla Consulta.
Roberto Ormanni

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