RENATO BRUNETTA
MINISTRO PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Il Corriere della Sera
26 luglio 2008
Caro Direttore, sì, sono contro i dipendenti pubblici fannulloni e ho intenzione di continuare, non mollo. Ma non penso affatto che tutti i dipendenti pubblici siano fannulloni. Sono anzi convinto del contrario: moltissimi lavorano con competenza e senso del dovere. Senza di loro saremmo alla bancarotta amministrativa. Detesto le generalizzazioni, e sto lavorando proprio contro di esse; per questo ritengo opportuna e anzi doverosa una riflessione pubblica.
Tre sono i punti che tengo sempre presenti, e che invito ciascuno a considerare.
Tre sono i punti che tengo sempre presenti, e che invito ciascuno a considerare.
1. Il prestigio sociale dei dipendenti pubblici si è molto ridotto, con grave danno per quelli che lavorano seriamente. Penso, ad esempio, ai maestri di un tempo o ai professori di oggi (quale sono anch'io). Se siamo meno considerati è perché valiamo di meno: fra noi ci sono certo molte eccellenze, ma moltissimi sono selezionati male o niente affatto, non si misurano con la frontiera della ricerca e della didattica, sono appiattiti in una mediocrità culturale ed economica in cui «tutti i gatti sono grigi». Il danno lo subiscono gli studenti, protagonisti dimenticati e marginalizzati del sistema formativo; ma poi lo subiscono la cultura, la ricerca, le imprese, le stesse amministrazioni che non possono avvalersi di personale e dirigenti di qualità.
2. La produttività degli uffici pubblici non è misurata e meno che mai controllata regolarmente e resa trasparente ai cittadini. Chi lavora lo fa per senso del dovere, perché è onesto e ha amor proprio; ma di chi non lavora nessuno si cura. A chi lavora bene manca del tutto il sostegno dell'apprezzamento dei cittadini per il buon lavoro svolto. Le assenze dal lavoro per malattia o altre cause sono molto più numerose che nel privato. Non è che lo Stato faccia male alla salute, ma è che in quegli uffici c'è minore controllo, maggiore lassismo. Manca la responsabilità nei confronti di clienti e contribuenti; mancano i responsabili, i capi il cui successo, anche economico, dipenda dai risultati. E il datore di lavoro, il policy maker è troppo distratto dalla sua personale gestione del potere.
3. L'opacità del settore pubblico è preoccupante. Si fa di tutto per non far capire chi fa cosa, quando e per quanti soldi. Sono bastate le poche operazioni trasparenza da noi lanciate (mettere on-line stipendi e curricula dei dirigenti, permessi sindacali, consulenze, assenteismo) per fare scandalo. Se ne è parlato per giorni, ma si tratta di cose tutto sommato banali, che dovrebbero essere un normalissimo costume democratico. Su questi tre punti ho impostato la mia azione di riforma:
2. La produttività degli uffici pubblici non è misurata e meno che mai controllata regolarmente e resa trasparente ai cittadini. Chi lavora lo fa per senso del dovere, perché è onesto e ha amor proprio; ma di chi non lavora nessuno si cura. A chi lavora bene manca del tutto il sostegno dell'apprezzamento dei cittadini per il buon lavoro svolto. Le assenze dal lavoro per malattia o altre cause sono molto più numerose che nel privato. Non è che lo Stato faccia male alla salute, ma è che in quegli uffici c'è minore controllo, maggiore lassismo. Manca la responsabilità nei confronti di clienti e contribuenti; mancano i responsabili, i capi il cui successo, anche economico, dipenda dai risultati. E il datore di lavoro, il policy maker è troppo distratto dalla sua personale gestione del potere.
3. L'opacità del settore pubblico è preoccupante. Si fa di tutto per non far capire chi fa cosa, quando e per quanti soldi. Sono bastate le poche operazioni trasparenza da noi lanciate (mettere on-line stipendi e curricula dei dirigenti, permessi sindacali, consulenze, assenteismo) per fare scandalo. Se ne è parlato per giorni, ma si tratta di cose tutto sommato banali, che dovrebbero essere un normalissimo costume democratico. Su questi tre punti ho impostato la mia azione di riforma:
a) restituire prestigio a chi serve le amministrazioni centrali e locali;
b) valutare la produttività in modo da premiare, con soldi e carriera, chi lavora più e meglio;
c) rendere lo Stato una casa di vetro, dentro la quale il cittadino possa sempre guardare con fiducia e soddisfazione;
d) dare voce non solo ai cittadini-elettori, ma anche ai cittadini-consumatori di beni e servizi pubblici.
Per non pagare due volte: la prima con le tasse, la seconda per comprarsi beni e servizi che lo Stato non ti dà o ti dà male.
E parliamo pure di soldi.
Si sente spesso ripetere che i dipendenti pubblici sono pagati poco in cambio di poco lavoro.
È falso.
Ognuno dovrebbe guadagnare in ragione del proprio contributo alla crescita della ricchezza collettiva.
I lavoratori pubblici, negli ultimi otto anni, mentre il Paese si incagliava in una fase di stagnazione dei redditi e del prodotto, hanno visto crescere i loro stipendi più dell'inflazione e ben più dei privati.
E l'hanno fatto senza correre alcun rischio occupazionale, avendo in tasca una sicurezza di lavoro e di carriera che nel privato nessuno possiede.
Non intendiamo togliere niente a nessuno, ma impostare le cose in modo che sia premiato l'impegno e non la furbizia, il lavoro e non l'arte di scansarlo, il merito e non il privilegio.
Questo non per generico moralismo (benché la moralità sia un bene prezioso, anche per il buon funzionamento dell'economia e della società), ma perché non possiamo più permetterci un'amministrazione pubblica costosa e inefficiente, freno e non motore della crescita.
Oggi le frontiere sono aperte, i mercati sono globali, e l'Italia non ha più l'arma della svalutazione competitiva per mettere sotto al tappeto la polvere delle sue arretratezze strutturali: dobbiamo quindi rimediare, riformare, rendere il Paese più efficiente e moderno— ovviamente anche nel pubblico impiego.
Oggi le frontiere sono aperte, i mercati sono globali, e l'Italia non ha più l'arma della svalutazione competitiva per mettere sotto al tappeto la polvere delle sue arretratezze strutturali: dobbiamo quindi rimediare, riformare, rendere il Paese più efficiente e moderno— ovviamente anche nel pubblico impiego.
Abbiamo il dovere di farlo, perché la corsa della nostra economia non sia appesantita da inutile zavorra e perché di uno Stato che funziona hanno bisogno i più deboli, gli svantaggiati, certo non i privilegiati.
Può darsi che qualche nostra durezza appaia impopolare, ma invito ciascuno a considerare quanto anti popolare è un sistema in cui l'inefficienza dello Stato condanna gli ultimi a restare tali.
Cattiva politica, cattivo sindacato hanno sin qui prodotto mostri.
Per questo ho bisogno della buona politica (quella del mio amico Ichino per esempio), e di un sindacato protagonista del cambiamento.
Vedo, invece, che qualcuno minaccia proteste, «autunni caldi»: siamo un Paese libero, ci mancherebbe.
Ma vorrei capire per cosa s'intende protestare: per la conservazione dell'esistente? Per preservare il «tesoretto» del privilegio, della sicurezza e dell'irresponsabilità?
Così si danneggiano appunto gli interessi di chi lavora e di chi nel pubblico impiego vuole entrarci per fare e non per approfittare; e, prima ancora, gli interessi di chi attende un servizio che non può altrimenti comprare.
E ancora. Non ci sono abbastanza soldi per il rinnovo del contratto? Facciamo bene i conti, tenendo presente, però, una volta per tutte, soprattutto produttività e qualità. Perché premiare chi non lo merita? E poi, con questi chiari di luna congiunturale, il Paese capirebbe uno sciopero generale nel pubblico impiego, quando nel settore privato a rischio non è il rinnovo del contratto, quanto lo stesso posto di lavoro?
Certo il decreto Tremonti-Brunetta ha tagliato con durezza un pezzo di cattiva spesa corrente.
Che altro c'era da fare?
Chi strilla tanto contro ha il dovere di dire cosa avrebbe fatto al posto del governo per controllare e stabilizzare la finanza pubblica in un triennio di crescita quasi zero, con deficit tendenziale crescente, fuori dagli impegni europei.
Poi, per carità, di errori ne commettiamo tutti.
Ma non sono affatto disposto a rinunciare all'impegno, rigoroso e costante, per restituire forza, dignità ed efficacia all'amministrazione pubblica e a chi ci lavora.
Per dare più sicurezza, più sanità, più scuola, più cultura, migliore burocrazia, più giustizia.
Da una sola parte.
Dalla parte dei cittadini, dalla parte dei lavoratori.
COMMENTO
Il Ministro Brunetta non demorde. Dall'alto della sua statura di economista e professore universitario di Economia del Lavoro dell'Università Tor Vergata di Roma, si è dato il compito, precipuo del suo Ministero, di fare lo spauracchio dei Pubblici Dipendenti ed ha iniziato da subito a mostrare i muscoli, ridisciplinando (a modo suo, in realtà è una minestra riscaldata, confezionata già nel 1983 - Governo Andreotti) fra gli altri il settore dell'assenteismo dai luoghi di lavoro e quello della produttività dei dipendenti pubblici.
In questo mio blog ho già avuto modo di esprimere il mio punto di vista, e cioè che si tratta di operazioni di mera facciata.
Mi viene in mente la cartellonistica stradale che avverte che il tratto di autostrada è sottoposto a vigilanza elettronica, salvo poi a non trovare mai una pattuglia di Polizia stradale che fa rispettare il Codice della strada agli automobilisti indisicplinati (per non parlare delle strade statali, laddove chi non supera dov'è la striscia continua viene cosiderato un 'fesso' o peggio).
Si chiama effetto dissuadente di carattere eminentemente psicologico, come i famosi 'panettoni' in città che servono ad evitare i parcheggi nelle zone veitate e che si chiamano in linguaggio tecnico 'dissuasori', che funzionano solo perchè sono oggetti di cemento armato pesantissimi e non manovrabili se non tramite apposto mezzo meccanico.
La prova della inefficacia della cartellonistica, sempre nelle autostrade, è data dalla circostanza che è stato adottato il sistema c.d. 'tutor', che monitorizza gli autoveicoli sulle autostrade a tre corsie, calcolando il tempo medio intercorrente fra due 'tutor' e la velocità media tenuta dall'automobilista. Il sistema dovrebbe irrogare sanzioni a chi ha superato la media dei 130 chilometri orari, e cioè la velocità massima che si può raggiungere in autostrada, ma fatte due rapide riflessioni, ci si deve chiedere quanto personale viene addetto ai centri di controllo e quante infrazioni sono registrate quotidianamente su tutta la rete autostradale e, di conseguenza, quante ne possono essere contestate. Sono arrivato alla conclusione che solo le i frazioni più gravi dovrebbero essere sanzionate con le contravvenzioni (sanzioni pecuniarie) previste. Tuttavia, chi scrive ha moderato ancor più la già modesta velocità strumentale della propria autovettura, perchè non sa se il sistema funziona o meno. E non è dato saperlo ai non addetti ai lavori se funziona davvero.
Bene, anche in questo caso, dell'assentesimo, si è prodotto un effetto psicologico analogo, per cui l'assenteismo è in flessione considerevole (risparmio le percentuali).
Ciò significa che il dipendente pubblico in genere non sa se e come funziona il sistema di controlli (visite fiscali, sanzioni economiche, potenzialità del sistema di controlli ecc.), che in genere funziona assai poco e male.
Lo ripeto in pillole. Il medico fiscale è un 'precario', con contratto a tempo determinato, di uno-due anni, rinnovabile, che deve confermare o non la diagnosi e la prognosi del collega medico di base, che quand'è all'apice di persone assistite (max 1.500), essendo pagato dallo Stato un 'tot' ad assistito, percepisce una retribuzione di di 4.500-5.000 euro netti.
La sua unica preoccupazione è di non scontentare gli assistiti, che possono toglierli la 'fiducia' e rivolgersi ad un altro medico di base, facendo diminuire la retribuzione del malcapitato medico di base coscienzioso.
Insomma, il medico di base fa parte del sistema, il medico fiscale no, è come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.
La conseguenza è che il medico fiscale conferma sempre le malattie.
Adesso che per prognosi oltre i 10 giorni il dipedente pubblico deve acquisire certificazione medica di una struttura pubblica, cioè di medici ospedalieri, la remota possibilità di un rigetto di diagnosi e/o prognosi è decisamente azzerata.
I pubblici dipendenti più avvertiti lo sanno, gli altri no e rientrano al lavoro.
Quando lo avranno capito tutti, l'effetto 'Brunetta' si sarà azzerato.
Altrettanto si può dire per il controllo di produttività, anche mediante l'estensione della 'class action' al settore pubblico (in quello privato già esiste ma la sua entrata in funzione è stata fatta 'slittare' al prossimo anno), dovrebbe il ministro Brunetta spiegare come la giustizia civile, molto più disastrata di quella penale, riuscirà ad evadere le azioni civili contro la pubblica amministrazione da parte dei cittadini, destinatari di piccole infrazioni e relativi piccoli danni economici causati dalla Pubblica Amministrazione stessa, che si riuniscono per citare in giudizio l'amministrazione pubblica mediante una 'class action'.
Quanti decenni ci vorranno ?
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