La Repubblica
27 luglio 2008
Dal canto mio sono del parere espresso su questo tema da Walter Veltroni: il presidente boccia le leggi palesemente incostituzionali e quelle prive di copertura finanziaria; le altre, approvate dal Parlamento, è tenuto a promulgarle, che gli piacciano oppure no.
Nel caso di specie, non essendo la legge Alfano palesemente incostituzionale e non avendo problemi di copertura finanziaria, la firma di Napolitano era un atto dovuto. Il che non toglie, ovviamente, che quella legge possa non piacere. A me - per restare nel personale - non piace affatto.
Non mi piace nel merito poiché non esiste al mondo una specifica immunità per i presidenti delle assemblee parlamentari e per il capo del governo. Esiste in pochi luoghi limitatamente al capo dello Stato. Gasparri, Bonaiuti, per non parlare di Berlusconi e degli stessi presidenti delle Camere, dicono perciò una rotonda menzogna quando si riparano dietro l'esempio (inesistente) di altri Paesi europei ed occidentali: non è vero, non esiste in nessun luogo una simile legge.
Ma non mi piace neppure per quanto riguarda la procedura adottata. È stato invertito di prepotenza l'ordine dei lavori parlamentari; la legge Alfano è stata messa al primo posto dell'agenda, prima dei decreti economici, prima della legge sulla sicurezza, prima di quella sulle intercettazioni. Nonostante il parere contrario di tutte le opposizioni. La discussione in commissione e nelle aule è stata condotta a passo di carica come se un qualche Attila fosse alle porte. I presidenti delle Camere hanno dato manforte non prestando alcun ascolto alle opposizioni alle quali dovrebbero invece riservare una priorità istituzionale.
La ragione di tutto ciò sta nel fatto che la legge sulla sicurezza era stata manipolata: nata sotto forma di decreto legge e come tale firmato da Napolitano che aveva apprezzato le ragioni di urgenza, vi era stato inserito indebitamente l'emendamento "blocca-processi", che avrebbe paralizzato la giurisdizione e avrebbe stravolto la costituzione materiale e perfino quella letterale.
Di fronte a tanto scempio Napolitano aveva avvertito il governo che non avrebbe firmato la legge di conversione. Per evitare un così clamoroso conflitto istituzionale l'avvocato di Berlusconi che è anche deputato aveva rispolverato il disegno di legge Schifani e a tambur battente l'aveva messo in pista.
L'urgenza riguardava unicamente e soltanto l'imputato Berlusconi. Questo è l'arcano niente affatto arcano di quanto è accaduto e qui c'è la dimostrazione - del resto pubblicamente dichiarata da Berlusconi - che la legge Alfano così come l'emendamento "blocca-processi" sono due strumenti per ottenere l'impunità dell'imputato Berlusconi.
Si è detto che Napolitano abbia scelto il male minore, ma neppure questo è vero: Napolitano si è limitato ad informare il governo che la legge sulla sicurezza non l'avrebbe firmata se non fosse stato ritirato o radicalmente corretto l'emendamento in questione, palesemente incostituzionale e subdolamente inserito con la connivenza dei presidenti delle Camere.
Questo dunque è quanto avvenuto.
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Naturalmente la partita sulla giustizia non è affatto terminata anzi, nelle intenzioni di Berlusconi, è appena cominciata. Qualcuno teme (l'ha scritto Carlo Federico Grosso sulla "Stampa" di venerdì) che "di male minore in male minore" l'eventuale mediazione del presidente della Repubblica si svolga a un livello sempre più basso e non riesca quindi ad evitare un sostanziale stravolgimento della Costituzione.
Io non credo che ciò avverrà perché non credo che Napolitano possa, voglia e debba mediare alcunché. Deve (e l'ha fatto in quest'occasione) esercitare i suoi poteri-doveri di custode della Costituzione e garante del corretto rapporto tra i poteri dello Stato. Non spetta a lui porsi il problema del male minore, che ha carattere politico e riguarda le forze politiche. Se si ponesse quel problema, a mio modesto avviso sbaglierebbe. La "moral suasion" è una prassi del tutto informale che cessa di fronte a concreti passaggi istituzionali.
Aggiungo che, di fronte alla pervicace intenzione di atti legislativi imposti a colpi di maggioranza, un'eventuale risposta referendaria sarebbe assolutamente legittima, salvo valutarne l'opportunità politica da parte dei promotori.
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Intanto incalza un altro tema del quale è imminente il passaggio parlamentare. Parliamo delle intercettazioni e del divieto che si vuole porre ai giornali e ai giornalisti di dare notizie e svolgere inchieste sulla fase inquirente dei procedimenti giudiziari.
Qui è in atto un vero e proprio attacco alla libertà di stampa e d'informazione, che è un "bene pubblico" garantito dalla Costituzione. Non parlo del sistema delle intercettazioni e dei poteri della magistratura che vanno certamente armonizzati per quanto possibile con il diritto alla riservatezza delle persone intercettate. Parlo della stampa, dei giornalisti, degli editori.
Calare un sipario di ferro sulla fase inquirente della giurisdizione è, né più né meno che una misura incostituzionale. Tra l'altro consentirebbe eventuali atti di "mala-giustizia" che le Procure potrebbero commettere al riparo di quel sipario e impedirebbe il formarsi di una pubblica opinione che rappresenta un elemento essenziale di controllo sull'operato della magistratura.
Non inganni l'eventuale derubricazione delle sanzioni contro i giornalisti da misure di restrizione della libertà personale a misure pecuniarie; in particolare non ingannino misure pecuniarie pesanti contro gli editori. Una sanzione di questo genere determinerebbe un'intrusione delle proprietà nella conduzione giornalistica vera e propria; intrusione assai grave in un sistema come il nostro dove le proprietà dei giornali non sono quasi mai in mano ad editori che non abbiano altre attività oltre quella editoriale.
Quest'intrusione effettuata a causa di una legge costituirebbe un vero e proprio attentato alla libertà di stampa nella concretezza del suo esercizio e quindi richiederà una resistenza ferma e non corporativa se è vero che la libera stampa è un bene costituzionale strettamente inerente alla democrazia.
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Nei giorni scorsi, a proposito di libera stampa e di doveroso controllo dei procedimenti giudiziari anche nella loro fase inquirente, ha suscitato scalpore la pubblicazione sul nostro giornale d'una lunga intervista del collega Giuseppe D'Avanzo a Giuliano Tavaroli, personaggio molto discusso e centrale nell'inchiesta della Procura di Milano sulle intercettazioni illecite della Telecom. Sarebbe ipocrita da parte mia se, parlando di rapporti tra magistratura e libera stampa, ignorassi questo tema e le reazioni di vario tipo che esso ha suscitato in campo politico e in altri giornali. Del resto D'Avanzo ha già ampiamente risposto ad una serie di illazioni che la sua intervista ha provocato e che non hanno alcun fondamento.
L'inchiesta della Procura di Milano è stata, per quanto mi consta, estremamente rigorosa, ha raccolto una massa di documentazione imponente, ha interrogato numerosi testimoni, ha raccolto corposi indizi. A conclusione di questo lavoro durato tre anni la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio di Tavaroli e di un'altra ventina di personaggi tra i quali emergono l'ex capo del controspionaggio del Sismi, Mancini, e il capo di una società privata di investigazioni, Cipriani. In combutta con loro il capo della "Security Telecom" Tavaroli e i suoi accoliti avevano creato una vera e propria rete all'interno dell'azienda, in grado di violare ogni privatezza con la collaborazione di personaggi e di spezzoni dei servizi più o meno deviati, agenti di Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.
La Procura ha anche chiesto il rinvio a giudizio dei soggetti giuridici Telecom e Pirelli notificando gli atti ai loro legali rappresentanti dell'epoca: Tronchetti Provera e Buora, senza tuttavia chiedere il loro rinvio a giudizio personale perché i riscontri indiziari a loro carico non sono stati ritenuti sufficienti alla loro incriminazione. Appariranno pertanto in dibattimento in veste di testimoni.
Poiché l'imputato numero uno di un processo di questa importanza ha accettato di parlare con il giornalista D'Avanzo, il giornale ha deciso di pubblicare la sua intervista senza apportarvi censure di sorta ma avvertendo più volte nel testo che l'intervistato essendo un indagato esprime le sue tesi ovviamente interessate e non necessariamente coincidenti con quella verità che soltanto in dibattimento potrà emergere. Alcuni giornali si sono preoccupati di erigere una sorta di cintura di protezione attorno a Tronchetti Provera e all'ipotetico rischio che l'intervista di Tavaroli possa farne in dibattimento un coimputato anziché soltanto un testimone.
Tutto è possibile anche perché gli imputati attuali faranno di tutto per chiamare in correità personaggi eminenti (Tronchetti certamente lo è) nel tentativo di diminuire le proprie responsabilità diluendole in capo ad altri. Debbo a dire a questo proposito che molto più dell'intervista di Tavaroli mi ha colpito la lettura dei verbali dell'interrogatorio del presidente della Pirelli. Il quale afferma quasi ad ogni riga d'un lunghissimo documento pieno di domande e di osservazioni da parte dei pubblici ministeri, di non aver mai saputo nulla dell'attività di uno dei suoi più importanti collaboratori.
Ammettiamo che questa tesi sia vera: getterebbe comunque una luce sinistra sull'organizzazione di un'azienda titolare di un servizio di pubblica utilità immensamente importante e depositario delle più intime privatezze dei suoi milioni di utenti.
L'importanza oggettiva dell'intervista di Tavaroli è l'aver portato all'attenzione dell'opinione pubblica questo essenziale aspetto d'una questione che ci riguarda tutti molto da vicino.
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Voglio chiudere queste mie note inviando pubblicamente a Piero Fassino che conosco da vent'anni i sensi della mia affettuosa stima e rinnovata amicizia. Quel figuro che ha cercato di coinvolgerlo aveva nelle mani strumenti sofisticatissimi mirati a falsificare e ricattare. È augurabile che nella Telecom attuale queste pericolosissime pratiche siano rese impossibili. Vorremo esserne sicuri come utenti e come cittadini.
COMMENTO
I compiti affidati dalla Costituzione al Presidente della Repubblica sono fissati nell’art. 87 che recita:
“1) Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.
2) Può inviare messaggi alle Camere
.
3) Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione.
4) Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo.
5) Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti.
6) Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione.
7) Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato.
8) Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere.
9) Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere.
10) Presiede il Consiglio superiore della magistratura.
11) Può concedere grazia e commutare le pene.
12) Conferisce le onorificenze della Repubblica.”
La numerazione dei commi non è presente nel testo della Costituzione ed è stata operata da me per meglio argomentare su un punto dell’articolo di Scalfari che non mi convince.
Già il 25 luglio di quest’anno postai un mio intervento, titolato “Il lodo Alfano”, in cui commisi un grave errore, errore poi da me corretto nel post del 26 luglio 2008, titolato “L’ultimo insulto a Napolitano”.
Riprendo le argomentazioni di quest’ultimo post semplificandole.
Il comma 4 dell’art. 87 Cost. recita: “Autorizza (il Presidente della Repubblica, n.d.r.) la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa”.
Il “lodo Alfano" era un disegno di legge di iniziativa del Governo, quindi abbisognava per la presentazione alle Camere dell’AUTORIZZAZIONE del Capo dello Stato, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
È quello il momento topico, in cui il Capo dello Stato, autorizzando la presentazione del disegno di legge, noto come “lodo Alfano”, si è legato le mani.
Il ‘lodo Alfano’ è stato approvato a tamburo battente, in 20 giorni, dalle Camere, così come presentato nel suo testo, che non ha subito nessuna modifica.
Come poteva il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rifiutare la firma di promulgazione della legge, nota come ‘lodo Alfano’, la cui presentazione egli stesso aveva autorizzato e che era stata approvata nel testo da lui autorizzato ?
No, non poteva, non più !
Io non sono un costituzionalista, sono un pensionato che ha svolto un lavoro oscuro e mal ricompensato e che ha sempre tentato di ragionare con la propria e non l’altrui testa.
Ricorrendo spesso al semplice buon senso.
In questo caso non sembra temerario affermare che il Capo dello Stato avrebbe, teoricamente, potuto rifiutare la firma, ma ne sarebbe venuto fuori un canaio inaccettabile.
Quanto alla questione della forma delle legge (legge ordinaria o legge costituzionale), l’argomentazione che il c.d. ”lodo Schifani” era stato cancellato da una sentenza della Corte costituzionale (n. 24 del 20 gennaio 2004), che non aveva statuito la necessità di una legge costituzionale (art. 138), credo di avere ragionevolmente dimostrato nel post del 26 luglio 2008 che la Corte costituzionale, avendo accertato la lesione di due norme sostanziali della Costituzione (art. 3 e 24), non aveva esaminato gli altri profili di incostituzionalità, eccepiti dal Tribunale di Milano, avendo ritenuto gli stessi assorbiti dalla violazione delle norme suddette (art. 3 e 24).
Ne consegue la Corte costituzionale non ha statuito al riguardo e la questione necessitava, dunque, di un esame preliminare all’autorizzazione del disegno di legge detto ‘lodo Alfano’.
Non v’è dubbio che tale esame è stato fatto, con esito negativo: no, non occorreva una legge costituzionale, dunque vai con una legge ordinaria.
Peccato che 100 costituzionalisti italiani la pensassero e la pensino diversamente.
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