MARCO GRASSO e MARCO LIGNANA
La Repubblica
29 luglio 2008
Nel 2001 la "beffa": Ayesh diventa cittadino per meriti di lavoro
Nella sua situazione molti palestinesi arrivati negli anni '80 e schedati in massa
Nella sua situazione molti palestinesi arrivati negli anni '80 e schedati in massa
GENOVA - Ayesh è due persone diverse a seconda di quale autorità lo giudichi. La città di Genova lo ha insignito del titolo di cittadino onorario per meriti di lavoro nel 2001. Lo Stato italiano si rifiuta di concedergli la cittadinanza, nonostante ormai ne abbia pieno diritto: vive in Italia regolarmente da ventiquattro anni e da sedici è sposato con una donna italiana, da cui ha avuto due figli. La ragione è che viene ritenuto un "pericolo per la Repubblica". Le carte lo definiscono un "sospetto simpatizzante del Fronte di liberazione popolare palestinese (Fplp)". Un'accusa che oltre a essere piuttosto debole non è mai stata provata in sedici anni di ricorsi e soprattutto che nessuno si è mai degnato di motivare. Il suo non è un caso isolato. Nella sua condizione ci sono quasi tutti gli immigrati dalla Terra Santa negli anni '80, quando essere palestinese significava essere schedato in maniera preventiva.
Le clienti affollano il suo negozio di parrucchiere a Quarto, quartiere residenziale di Genova. "Ho una fedina penale immacolata - dice in un italiano forbito Ayesh Abu Nahieh, 42 anni, originario di Gaza - ma quando uno ascolta una storia del genere finisce per avere il dubbio che ci sia qualcosa sotto". La prima domanda, presentata nel 1994, viene rifiutata: "ragioni inerenti alla sicurezza". Nessuna spiegazione. Segue un ricorso al Tar, la cui sentenza arriva dopo sette anni: "l'accusa" è di essere "un sospetto simpatizzante del Fplp, gruppo attestato su posizioni oltranziste rispetto all'Olp".
L'ennesima bocciatura arriva con il Consiglio di Stato nel 2004, che aggiunge: l'Amministrazione ha diritto a non dare spiegazioni. "A parte che "essere simpatizzante" assomiglia a un reato di opinione - si sfoga lui - Ma non mi hanno mai mostrato uno straccio di prova. Sono stato quasi tentato di autodenunciarmi, paradossalmente potrebbe essere l'unico modo per provare la mia innocenza". Resta un mistero anche il perché lo Stato italiano si terrebbe sul suo territorio un "pericolo" per 25 anni. La cittadinanza onoraria, un riconoscimento che si dà alle persone che la città è fiera di ospitare, assegnatagli dall'ex sindaco Beppe Pericu nel 2001, è un po' una consolazione e un po' una beffa.
Secondo il suo avvocato, Ayesh avrebbe più possibilità a presentare una seconda domanda, ma per lui ormai è una questione di principio: "Mi hanno rubato la vita, ora voglio una spiegazione, almeno delle scuse - dice - voi non capite cosa significa vivere come uno straniero, con la Digos che ogni tanto ti entra in casa". L'ultima volta nel 2001, poco prima del G8. Non hanno trovato nulla, come le altre volte. "Non ti dico lo shock per la bambina".
Situazioni a cui nel tempo si è abituato. Nel 1989 due poliziotti lo perquisiscono mentre riaccompagna la fidanzatina italiana. Uno impugna una mitraglietta, lei si spaventa e lo lascia. Più di recente una macchina rimane per giorni posteggiata fuori dal negozio. Dopo poco uno "strano" furto: i ladri rubano un vecchio pc, lasciano 60mila euro di prodotti e si portano via due shampoo e due balsami.
L'unica ad essersi interessata di lui fino ad ora è Milò Bertolotto, assessore alla Provincia del Pd, da sempre attiva per i diritti di immigrati, carcerati e donne: "E' una situazione kafkiana - dice Bertolotto - sto cercando di ottenere un'interpellanza parlamentare sul suo caso". Rimane ancora la Cassazione, ma le speranze sono poche. Ayesh è pronto a portare il suo caso davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Ma è un obiettivo costoso, soprattutto dopo un calvario processuale di 14 anni. Per questo sta cercando un'associazione che gli fornisca almeno supporto legale. "Lo faccio per i miei figli, a cui non ho insegnato una parola di arabo. Non voglio che abbiano un padre sospettato di essere un terrorista". E non solo per loro.
Nella situazione di Ayesh c'è un'intera generazione di palestinesi, arrivati in Italia negli anni '80. Migranti che si distinguono per caratteristiche molto particolari: erano arrivati per studiare, spesso da buone famiglie, oggi occupano posti di responsabilità e sono dei modelli di integrazione. Eppure lo Stato italiano non li vuole. Hanno tutti famiglia in Italia, ma pochi vogliono parlare: hanno paura di essere rimandati a casa. Accusati in maniera così grossolana, che alcuni sono stati definiti allo stesso tempo "simpatizzanti" del Fplp e Hezbollah, due fazioni contrapposte. "Non abbiamo mai fatto niente di male - dice uno di loro, anche lui in attesa di cittadinanza da più di venti anni - abbiamo frequentato l'università. Siamo tutti integrati e amiamo l'Italia. Ma non ci hanno mai permesso di partecipare attivamente a questa società: siamo stati schedati a vita e senza un motivo".
Le clienti affollano il suo negozio di parrucchiere a Quarto, quartiere residenziale di Genova. "Ho una fedina penale immacolata - dice in un italiano forbito Ayesh Abu Nahieh, 42 anni, originario di Gaza - ma quando uno ascolta una storia del genere finisce per avere il dubbio che ci sia qualcosa sotto". La prima domanda, presentata nel 1994, viene rifiutata: "ragioni inerenti alla sicurezza". Nessuna spiegazione. Segue un ricorso al Tar, la cui sentenza arriva dopo sette anni: "l'accusa" è di essere "un sospetto simpatizzante del Fplp, gruppo attestato su posizioni oltranziste rispetto all'Olp".
L'ennesima bocciatura arriva con il Consiglio di Stato nel 2004, che aggiunge: l'Amministrazione ha diritto a non dare spiegazioni. "A parte che "essere simpatizzante" assomiglia a un reato di opinione - si sfoga lui - Ma non mi hanno mai mostrato uno straccio di prova. Sono stato quasi tentato di autodenunciarmi, paradossalmente potrebbe essere l'unico modo per provare la mia innocenza". Resta un mistero anche il perché lo Stato italiano si terrebbe sul suo territorio un "pericolo" per 25 anni. La cittadinanza onoraria, un riconoscimento che si dà alle persone che la città è fiera di ospitare, assegnatagli dall'ex sindaco Beppe Pericu nel 2001, è un po' una consolazione e un po' una beffa.
Secondo il suo avvocato, Ayesh avrebbe più possibilità a presentare una seconda domanda, ma per lui ormai è una questione di principio: "Mi hanno rubato la vita, ora voglio una spiegazione, almeno delle scuse - dice - voi non capite cosa significa vivere come uno straniero, con la Digos che ogni tanto ti entra in casa". L'ultima volta nel 2001, poco prima del G8. Non hanno trovato nulla, come le altre volte. "Non ti dico lo shock per la bambina".
Situazioni a cui nel tempo si è abituato. Nel 1989 due poliziotti lo perquisiscono mentre riaccompagna la fidanzatina italiana. Uno impugna una mitraglietta, lei si spaventa e lo lascia. Più di recente una macchina rimane per giorni posteggiata fuori dal negozio. Dopo poco uno "strano" furto: i ladri rubano un vecchio pc, lasciano 60mila euro di prodotti e si portano via due shampoo e due balsami.
L'unica ad essersi interessata di lui fino ad ora è Milò Bertolotto, assessore alla Provincia del Pd, da sempre attiva per i diritti di immigrati, carcerati e donne: "E' una situazione kafkiana - dice Bertolotto - sto cercando di ottenere un'interpellanza parlamentare sul suo caso". Rimane ancora la Cassazione, ma le speranze sono poche. Ayesh è pronto a portare il suo caso davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Ma è un obiettivo costoso, soprattutto dopo un calvario processuale di 14 anni. Per questo sta cercando un'associazione che gli fornisca almeno supporto legale. "Lo faccio per i miei figli, a cui non ho insegnato una parola di arabo. Non voglio che abbiano un padre sospettato di essere un terrorista". E non solo per loro.
Nella situazione di Ayesh c'è un'intera generazione di palestinesi, arrivati in Italia negli anni '80. Migranti che si distinguono per caratteristiche molto particolari: erano arrivati per studiare, spesso da buone famiglie, oggi occupano posti di responsabilità e sono dei modelli di integrazione. Eppure lo Stato italiano non li vuole. Hanno tutti famiglia in Italia, ma pochi vogliono parlare: hanno paura di essere rimandati a casa. Accusati in maniera così grossolana, che alcuni sono stati definiti allo stesso tempo "simpatizzanti" del Fplp e Hezbollah, due fazioni contrapposte. "Non abbiamo mai fatto niente di male - dice uno di loro, anche lui in attesa di cittadinanza da più di venti anni - abbiamo frequentato l'università. Siamo tutti integrati e amiamo l'Italia. Ma non ci hanno mai permesso di partecipare attivamente a questa società: siamo stati schedati a vita e senza un motivo".
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