martedì 29 luglio 2008

Tavaroli e il boss, «giallo» in carcere


Il Corriere della Sera
29 luglio 2008
Un agente consentì al capo della Security di Telecom e all'ergastolano di parlare a lungo in infermeria, nell'ordine nelle immagini


MILANO — Quando Giuliano Tavaroli era stato d'improvviso trasferito nel febbraio 2007 dal carcere di Voghera a quello di Como, il motivo era sembrato solo un banale incontro, magari inopportuno ma casuale, tra l'ex capo della Security di Telecom e un altro detenuto. Ma gli atti depositati adesso nell'inchiesta milanese rivelano ben altra gravità di quanto accaduto la sera del 15 febbraio 2007 nel carcere di Voghera. Dove in teoria Tavaroli (arrestato il 20 settembre precedente) avrebbe dovuto essere in isolamento. E dove, sempre in teoria, avrebbe dovuto essere sottoposto ad «alta sorveglianza» (tanto più dopo l'evasione dal carcere di Bergamo il 15 ottobre 2004 insieme all'altoatesino Max Leitner) l'ergastolano Emanuele Radosta, «soggetto di elevata pericolosità appartenente a Cosa Nostra nella consorteria di Villafranca Sicilia, in espiazione pena» per l'omicidio nel 1996 del commerciante di arance Calogero Tramuta e nel 1992 di Giuseppe Borsellino, imprenditore del calcestruzzo che aveva cercato da solo gli assassini del figlio Paolo ribellatosi al racket. E invece, quella sera un ispettore penitenziario aprì la cella dell'uno, aprì la cella dell'altro, li accompagnò nella stanza dell'assente dirigente sanitario, li fece parlare a lungo nella stanza chiusa a chiave, e poi li riaccompagnò in cella.

Tutto senza che ne restasse traccia sui registri ufficiali del carcere. Un «giallo » su cui ora indaga la Procura di Voghera. E sul quale Tavaroli ha dato questa spiegazione: bisogno di «socialità». La vicenda emerge solo perché una dottoressa del carcere, nel prendere servizio, avverte per caso dei rumori provenienti dalla stanza (che doveva essere vuota) del dirigente sanitario. «Insospettita dai rumori, ho riscontrato che la porta era chiusa e, tramite la finestrella plastificata ricavata sulla porta, ho notato che nell'ufficio vi erano Tavaroli, seduto alla scrivania del dottor F., il detenuto Radosta seduto sulla sedia a destra, e dietro la scrivania del dirigente sanitario l'ispettore R.». È un collega dell'ispettore R., e cioè l'assistente P., a raccontare cosa fosse accaduto: «Verso le 20.20 l'ispettore R. mi ha ordinato di aprire la cella n. 1 di Radosta, facendolo uscire dalla cella e accompagnandolo in infermeria, dove entrambi si accomodavano nell'ufficio del dirigente sanitario di fianco all'ambulatorio. Nello stesso tempo l'ispettore mi ordinava di far uscire il detenuto Tavaroli, ubicato presso il reparto sosta, cella n.1, isolato giudiziario, e di accompagnarlo in infermeria.

Dalle 20.20 alle 22 l'ispettore R., unitamente ai due detenuti, è rimasto chiuso nell'ufficio del dirigente sanitario». Poi «l'ispettore mi ordinava di riaccompagnare in cella il detenuto Tavaroli, e successivamente riaccompagnavamo Radosta nella sua cella». Quando però la direzione del carcere controlla gli appositi registri dei movimenti dei detenuti, scopre che «non risulta nessuna annotazione». Per forza. La spiegazione la offre ancora l'agente penitenziario P.: «L'ispettore R. mi ordinava di non annotare sugli appositi registri "movimenti detenuti" gli orari di uscita e entrata, nonché il luogo ove si erano recati i soggetti in parola».

La Procura di Voghera ha aperto una inchiesta, e i pm milanesi le hanno inviato la versione data da Tavaroli nell'interrogatorio del 12 aprile 2007: «Quella sera avevo crisi ansiose e depressive che riuscì a risolvere perché ebbi la possibilità di un momento di socialità con l'ispettore e anche con Radosta. In altre occasioni ho potuto parlare di sera con l'ispettore R. Non so spiegare perché i nostri spostamenti non sono stati registrati. Radosta mi prospettò solo un problema di reperimento di un appartamento per la madre che si era spostata dalla Sicilia a Vigevano e cercava un appartamento vicino al carcere di Voghera».
COMMENTO
Sapevo di questa vicenda, per avere letto qualcosa filtratato sulla stampa a suo tempo.
Temo di conoscere l'ispettore R. e proprio perchè lo conosco, anche se non ha mai lavorato alle mie dipendenze, ritengo verosimile che si sia trattato di un episodio dovuto a megolomania e smania di protagonismo, accomunata alla totale ignoranza delle dinamiche che vigono nelle carceri italiane, non esclusi i penitenziari del nord, abbagliato se non affascinato dal potere criminale che l'uno (l'ergastolano) esprimeva e l'altro (l'imputato Tavaroli) probabilmente sbandierava.
Questa volta l'ispettore R. l'ha fatta grossa e avrà sicuramente di che pentirsene, anche dal punto di vista penale.

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