di Gianluca Di Feo
Scarsa produttività. Merito non premiato. Così nei tribunali si sono accumulate 9 milioni di cause non smaltite. Mentre il governo lavora a imbrigliare i giudici
I modelli virtuosi
Una rivoluzione è possibile. Anche senza nuovi soldi. I primi studi statistici sulla produttività dei giudici mostrano che ci sono ampi margini per cambiare rotta e aumentare la quantità di fascicoli smaltiti. Un ricerca di prossima pubblicazione guidata da Andrea Ichino, Decio Coviello e Nicola Persico indica la possibilità di far decollare la produttività anche del 40 per cento. Dati teorici, certo. Che però trovano conferma in alcuni esempi molto concreti. Persino la Cassazione, un tempo simbolo di magistratura polverosa e arcaica, sta diventando un modello di rivincita. La Suprema Corte si è data una scossa, ridefinendo le procedure, inserendo più informatica, organizzando meglio i ranghi. Tanto è bastato a creare uno scatto: nel civile il bilancio è andato in attivo, sbrogliando molti più processi di quanti ne arrivino. Lo scorso anno ne sono stati licenziati 33 mila mentre le nuove pratiche sono state 30 mila. E tutto senza compromettere il garantismo.
Un miracolo proprio nel palazzaccio di marmo, un edificio troppo pesante che per un secolo ha continuato letteralmente a sprofondare nelle rive paludose del Tevere, incarnando la disfatta della giustizia italiana. Nel suo ufficio all'ultimo piano, affacciato su Castel Sant'Angelo, Giovanni Salvi, storico pm romano e in passato tra i leader del sindacato togato Anm, ha poche carte, uno scanner e lo schermo di un pc. È lui a presentare i dati di questa riscossa, facendo scorrere tra le dita come fosse un rosario la chiavetta Usb che può sostituire migliaia di pagine: "Prendiamo le tabelle del civile. Nel 1950 ogni magistrato chiudeva 62 procedimenti; nel 1998 erano 87. Poi con il nuovo millennio abbiamo cambiato passo. Nel 2006 sono stati 192, lo scorso anno 292". Una progressione impressionante. Che non rappresenta un'eccezione.
A Torino, il Tribunale civile ha stravolto la consuetudine del lavorare con lentezza. Il segreto? Un decalogo con 20 regole semplici, concordate con gli avvocati. Dal 2001 la montagna di arretrati è stata amputata di un terzo: dagli archivi hanno dissepolto liti per eredità vecchie di due generazioni e controversie commerciali per prodotti diventati nel frattempo antiquariato. Adesso in quelle aule si riesce a vedere l'Europa: il 93 per cento delle cause si chiude entro tre anni, il 66 in un anno. Ma anche nel tribunale penale di Roma c'è stata una razionalizzazione.
"È un altro esempio di riforma dal basso", spiega Salvi: "Abbiamo individuato l'imbuto nel calendario delle udienze: ogni giudice deve concentrare 20-30 processi in un giorno, con testimoni ed avvocati. Poi d'intesa con i penalisti abbiamo creato norme per evitare i disagi e rispettare gli orari. I risultati si sono visti subito"
Profondo nero
E allora, perché la situazione nazionale continua a peggiorare? Certo, c'è un quantità mostruosa di cause che si riversano nei tribunali, anche per colpa di governi che rendono tutto reato, persino la contrattazione con le prostitute. E c'è un proliferare di ricorsi che non ha pari nel mondo, fatti apposta per alimentare una schiera di avvocati altrettanto vasta. Ma a dispetto di questa tempesta di nuova cause e a dispetto dei primati delle corti modello, la produttività pro capite dei magistrati italiani continua a precipitare. I giudici dei tribunali sono passati da 654 fascicoli chiusi ogni anno del 2001 a soli 533 del 2006. È come se un delitto su cinque venisse dimenticato. Ma se si cerca di dare un peso alla statistica, allora diventa ancora più grave la frenata delle corti d'appello: i 177 casi annuali si sono ridotti a 145. E ogni ritardo in questa fase apre le porte alla prescrizione che cancella i reati e si trasforma nella negazione di ogni giustizia. La radiografia della catastrofe è stata presentata pochi giorni fa dal ministro Angelo Alfano, che però si è poi premurato di firmare un pacchetto di misure destinato a renderla ancora più drammatica. L'arretrato civile è di 5.425.000 fascicoli, quello penale di 3.262.000. Un processo civile dura in media 960 giorni per il primo grado, 50 mesi l'appello. Quasi sette anni prima di arrivare alla Cassazione: un tempo umiliante che distrugge la vita delle aziende e dei cittadini. Nel penale ci vogliono 426 giorni per la prima sentenza e due anni per l'appello: il che significa l'impunità assicurata per un'infinità di crimini. Un altro studio disegna la Caporetto della giustizia. È un lavoro condotto da Riccardo Marselli e Marco Vannini, professori che si dedicano da anni ad applicare valutazioni oggettive nel mondo confuso dei tribunali: ben 17 distretti giudiziari su 29 risultano 'tecnicamente inefficienti'. I due docenti giungono a una conclusione pessimistica: la quantità dei fascicoli che si accumula è tale da annichilire ogni speranza. Senza demolire questa zavorra non si può rendere efficace il sistema. Allo stesso tempo però la ricerca statistica sottolinea come si possa fare di più: se tutti i magistrati si portassero sul livello dei più sgobboni, un decimo dell'arretrato nel civile e il 14 per cento di quello penale potrebbe venire cancellato. Una stima che aumenta nei tribunali meridionali, meno dinamici: un quinto dei fascicoli accatastati nel civile e quasi un quarto di quelli penali scomparirebbero. Utopia?
Senza qualità
Tutti sostengono che i fannulloni sono pochi. Ma dietro i giudici da prima pagina, dietro i pool che sgobbano in silenzio, dietro i pm antimafia che rischiano la vita c'è una massa di magistrati 'senza
qualità'. Hanno fatto del quieto vivere una regola aurea: evitano errori e grane, detestano stakanovismi e protagonismi, diffidano dell'informatica e dei modelli aziendali. Più sciatti che lavativi, talvolta arroganti con i colleghi e maleducati con gli utenti, ma soprattutto poco produttivi. Era rivolto a loro il discorso choc pronunciato due anni fa dal segretario di Md, la corrente 'rossa' delle toghe ma anche quella storicamente più più impegnata sul fronte dell'efficienza: "Nessuno dovrà sentirsi indifferente alla esigenza di un progetto organizzativo minimo per ogni ufficio. Dovremo osare di più, perché nessuno potrà rifugiarsi nella rivendicazione di un ruolo indipendente. Che, se non produce risultati, non serve a nessuno ed è destinato inevitabilmente a declinare", disse l'allora segretario Juan Ignazio Patrone. E ancora: "Il quieto vivere della corporazione non è più compatibile con il dovere di offrire risposte adeguate e qualitativamente decenti alla domanda sociale di giustizia". Belle parole. Ma chi controlla se le toghe lavorano?
Carriera garantita
Finora venivano promossi per anzianità, anche se si rimaneva a compiere le stesse mansioni: oggi quasi sette magistrati su dieci ricevono uno stipendio superiore all'incarico che svolgono. Lo ha analizzato Daniela Marchesi, uno dei responsabili dell'Isae, a 41 anni è considerata la pioniera della materia. Laurea in legge, dottorato in economia, specializzata negli Usa, ha lavorato con Flick alla Giustizia nel 1996 e poi al Tesoro con Padoa-Schioppa. Il suo obiettivo è stabilire quali misure possano incentivare comportamenti virtuosi: cita i testi di Carr Sunstein, il professore chiamato da Obama a guidare il dipartimento per le regole. "La giustizia italiana sarebbe un esempio da manuale: ci sono risorse umane ed economiche in linea con altri paesi, ma otteniamo un risultato generale molto scadente. Analizzando il sistema si vede l'origine del gap: la congerie di norme è fatta in modo tale che incentivi di comportamento vanno tutti in modo sbagliato". Più garanzie, sintetizza, richiedono più tempo. Ed è per questo che tra i soggetti del processo, più che ai magistrati tocca agli avvocati cambiare: "Il magistrato non può velocizzare la sua attività senza rischiare di compromettere le garanzie". Insomma, la professoressa Marchesi non crede in una riforma unilaterale. Pensa che però si possa fare di più per migliorare la selezione e i controlli, soprattutto eliminando le promozioni indiscriminate.
Ma se il lavoro non cambia, allora in cosa consiste la promozione? Nello stipendio, anzitutto. Dal 2003 al 2006 il numero di magistrati ordinari è leggermente diminuito, ma la spesa per le loro paghe è lievitata: oltre il 16 per cento in più. Nel 2003 per 9.043 tra giudici e pm lo Stato spendeva 842 milioni; un triennio dopo l'organico era sceso a 9.019, ma il costo era arrivato a 978 milioni: 136 in più, un incentivo niente male. E i dati mostrano che le retribuzioni medie delle nostre toghe (vedi tabella a pag. 58) sono tra le più alte d'Europa. Il premio c'è, senza legami con la quantità o la qualità. Ma la punizione? Poche le sanzioni del Consiglio superiore. E ancora di meno quelle proposte dagli ispettori ministeriali: anche nel 2008 si sono contate sulle dita di una mano. Il bilancio del Csm, organo di autogoverno della magistratura, può essere letto in chiaro scuro. In un decennio ha giudicato 1.282 toghe. Ne ha condannate 290, spesso con sanzioni simboliche che pesano però sulle nomine chiave; altre 156 si sono dimesse prima del verdetto: in tutto, fa circa 45 'puniti' l'anno sui 9 mila magistrati italiani, lo 0,5 per cento. Pochi. Ma molto più di quello che fanno le altri amministrazioni statali. "Le verifiche statistiche sul lavoro dei magistrati sono insensate. Le gare di nuoto si possono fare in una piscina, non in mezzo a uno tsunami. È la quantità di denunce e ricorsi ha trasformato la giustizia italiana in un continuo tsunami", taglia corto Piercamillo Davigo, protagonista di Mani pulite oggi giudice di Cassazione: "Non voglio fare il corporativo. Ma anche nei militari esistono valutazione periodiche: nel loro sistema l'indipendenza non è un valore, anzi. Eppure le loro valutazioni si concludono sempre con giudizi eccellenti. Perché nessuno se ne preoccupa? Anche loro finiscono con il diventare tutti generali. Se si discute solo della nostra produttività, temo che le finalità siano diverse".
Davigo cita un episodio: il record di produttività di un procuratore aggiunto lombardo. "Era un cialtrone, ma si vantava di avere smaltito 330 mila procedimenti in un anno. Come faceva? Aveva una squadra di carabinieri, armati con un timbro di gomma che riproduceva la sua firma, che su tutti i fascicoli stampavano 'Non doversi procedere perché rimasti ignoti gli autori del reato'".
Il nuovo sistema di valutazioni quadriennali appena introdotto dovrebbe smascherare furbetti del genere. Il meccanismo prevede controlli su quantità e qualità dell'attività di tutti, anche attraverso fascicoli pescati a campione tra quelli smaltiti. "Oggi ci sono nuovi meccanismi di valutazione molto efficaci e concreti. Diamo al sistema il tempo di cambiare", spiega Salvi: "Adesso il magistrato ha forte stimolo ad avere buoni pareri per poi ottenere un incarico direttivo o aspirare a posti specializzati".
C'è un solo limite: l'esame è affidato al consiglio giudiziario, un piccolo parlamento eletto dai magistrati a livello locale su modello del grande Csm nazionale. "In pratica gli eletti devono valutare i loro elettori. È come se in un'azienda le promozioni fossero illimitate e decise dai rappresentanti dei dipendenti. Ve lo immaginate?", spara a zero Carlo Guarnieri, docente a Bologna e tra i più attenti critici 'laici': "Ci vorrebbero commissioni esterne, nominate dal Csm. Così questi meccanismi sono inutili, anche perché non ci sono incentivi: chi non ha voglia di lavorare sa di rischiare poco". Mentre per essere puniti bisogna farla veramente grossa. Ennio Fortuna, procuratore generale di Venezia, ha scritto sulla rivista dell'Associazione magistrati: "Nel nostro ambiente i pochi che ci marciano sono ben noti a tutti". E perché non vengono denunciati? Perché è necessario che gli otto anni di ritardo nello scrivere le motivazioni di una sentenza, con conseguente scarcerazione dei condannati, diventino un caso solo dopo la denuncia di 'Repubblica'? La vicenda di Edi Pinatto, giudice ragazzino passato da Gela a Milano lasciando l'arretrato in sospeso è diventata esemplare. Salvi la paragona alle sabbie mobili: "I ritardi nel completare le sentenze molte volte erano commessi da quelli che tentavano di più di smaltire il lavoro, venendo sommersi per inesperienza". Perché non vengono segnalati? "Pinatto era già stato sanzionato una prima volta. Ma poi è mancata la segnalazione dei responsabili del suo ufficio".
Nei palazzi di giustizia si sente spesso una lamentela, comune tra pm e avvocati. I capi non denunciano i fannulloni. I capi non organizzano il lavoro. I capi non aggrediscono l'arretrato. Quella dei dirigenti è l'altra grande questione, fondamentale per risollevare la produttività. Finora la managerialità non pesava nella designazione: si diventava procuratori e presidenti per anzianità e accordi tra le correnti sindacali. Oggi in teoria dovrebbe essere determinante l'avere dimostrato capacità manageriali. Ma non ci si improvvisa capitani d'azienda: coordinare apparati complessi e ingolfati come i tribunali è una sfida che farebbe paura a qualunque amministratore. Guarnieri propone una soluzione radicale: dividere l'organizzazione del lavoro dai processi, affidando la gestione della prima a un vero manager. In pratica, il metodo delle Asl. "Paragoni non sostenibili. Nascerebbero tante unità giudiziarie locali in Italia: non è che Asl funzionino così bene...", ironizza Salvi.
Il peso dell'arretrato È chiaro, da soli i magistrati non potranno mai risolvere tutto l'handicap. Una ricerca del ministero indica l'impresa come impossibile. Per rianimare le Corti d'appello ci vorrebbero 134 nuovi giudici, tutti Stakanov, tutti preparatissimi e capaci di dare subito il massimo. Senza nuove regole organizzative, però, ogni rinforzo sarebbe inutile. Nella Corte d'appello penale, l'anticamera della prescrizione e quindi la discarica dei processi, servirebbero 32 mesi di lavoro solo per smaltire l'arretrato. Ma con poche regole di buon senso si potrebbe invertire la rotta. Ad esempio la standardizzazione dei fascicoli. Avete mai messo le mani nei faldoni di un processo? Spesso somigliano alle valige di fine vacanza: sciogliendo i lacci esplodono, rivelando una confusione profonda. Quando l'incartamento passa da un pm al suo sostituto, ci vogliono ore solo per trovare il bandolo della matassa. Invece, basterebbero pochi schemi condivisi per non sprecare tempo. Ma la rivoluzione può arrivare anche da un uso integrato dell'informatica: creare procedure a misura di rete. A Milano fino a dieci anni fa nelle udienze civili a turno uno degli avvocati scriveva a mano il verbale. Oggi nella stessa città usando il Web per uno solo dei passaggi del processo civile si sono guadagnati 60 giorni: il decreto ingiuntivo telematico ha fatto risparmiare due mesi di meno ad avvocati, cittadini e tribunale. Cosa ci vuole ad estenderlo a tutta Italia?
Autonomia e corporativismo Alla politica l'efficienza non interessa. E c'è la resistenza 'culturale' di una parte consistente dei magistrati. Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino, ha dedicato un intero capitolo del suo ultimo libro 'La questione immorale' alle "colpe dei magistrati". Racconta tra l'altro del programma informatico che aveva creato per coordinare le agende dei protagonisti del processo ed evitare quei rinvii che sfiancano la giustizia. Un'iniziativa che invece di procurargli una medaglia venne accolta con disprezzo dal Csm. "Quel programma è ancora lì ma nessuno lo usa. E ho capito che il processo penale è quello che è per via delle leggi stupide, delle leggi ad personam, della carenza di uomini e mezzi, ma anche, e in chissà quale percentuale, per via dell'incapacità organizzativa dei magistrati e dei dirigenti degli uffici". Ricorda Giovanni Salvi: "Nel 1998 facemmo un congresso dell'Anm per sensibilizzare sull'efficienza ma andò male. Noi delle correnti progressiste e la dirigenza dell'Anm premevamo perché si facesse un salto in quella direzione, ci fu una resistenza della base. Fu un errore: è stato uno sbaglio cavalcare l'autonomia come corporativismo. A difesa si può dire che quando hai un clima politico intorno di aggressione, questo determina una chiusura in difesa".
E ai governi i giudici fannulloni sono sempre piaciuti: "La politica offre uno scambio ai meno produttivi: io non minaccio i tuoi privilegi, tu non minacciare me", sintetizza il professor Guarnieri. Perché un modello di efficacia la magistratura italiana lo ha creato e imposto nel mondo. Una squadra che lavorava sette giorni su sette, con processi avviati in fretta e una percentuale di condanne irripetibile, un elevato livello di informatizzazione e una produttività mai eguagliata. Si chiamava pool Mani pulite. Lo detestavano politici, imprenditori e grand commis. Lo detestava una fetta consistente degli stessi giudici. Ed è proprio per evitare che quel modello venisse riprodotto ancora oggi si varano riforme su riforme, destinate a distruggere ogni speranza di giustizia.
(26 febbraio 2009)
I modelli virtuosi
Una rivoluzione è possibile. Anche senza nuovi soldi. I primi studi statistici sulla produttività dei giudici mostrano che ci sono ampi margini per cambiare rotta e aumentare la quantità di fascicoli smaltiti. Un ricerca di prossima pubblicazione guidata da Andrea Ichino, Decio Coviello e Nicola Persico indica la possibilità di far decollare la produttività anche del 40 per cento. Dati teorici, certo. Che però trovano conferma in alcuni esempi molto concreti. Persino la Cassazione, un tempo simbolo di magistratura polverosa e arcaica, sta diventando un modello di rivincita. La Suprema Corte si è data una scossa, ridefinendo le procedure, inserendo più informatica, organizzando meglio i ranghi. Tanto è bastato a creare uno scatto: nel civile il bilancio è andato in attivo, sbrogliando molti più processi di quanti ne arrivino. Lo scorso anno ne sono stati licenziati 33 mila mentre le nuove pratiche sono state 30 mila. E tutto senza compromettere il garantismo.
Un miracolo proprio nel palazzaccio di marmo, un edificio troppo pesante che per un secolo ha continuato letteralmente a sprofondare nelle rive paludose del Tevere, incarnando la disfatta della giustizia italiana. Nel suo ufficio all'ultimo piano, affacciato su Castel Sant'Angelo, Giovanni Salvi, storico pm romano e in passato tra i leader del sindacato togato Anm, ha poche carte, uno scanner e lo schermo di un pc. È lui a presentare i dati di questa riscossa, facendo scorrere tra le dita come fosse un rosario la chiavetta Usb che può sostituire migliaia di pagine: "Prendiamo le tabelle del civile. Nel 1950 ogni magistrato chiudeva 62 procedimenti; nel 1998 erano 87. Poi con il nuovo millennio abbiamo cambiato passo. Nel 2006 sono stati 192, lo scorso anno 292". Una progressione impressionante. Che non rappresenta un'eccezione.
A Torino, il Tribunale civile ha stravolto la consuetudine del lavorare con lentezza. Il segreto? Un decalogo con 20 regole semplici, concordate con gli avvocati. Dal 2001 la montagna di arretrati è stata amputata di un terzo: dagli archivi hanno dissepolto liti per eredità vecchie di due generazioni e controversie commerciali per prodotti diventati nel frattempo antiquariato. Adesso in quelle aule si riesce a vedere l'Europa: il 93 per cento delle cause si chiude entro tre anni, il 66 in un anno. Ma anche nel tribunale penale di Roma c'è stata una razionalizzazione.
"È un altro esempio di riforma dal basso", spiega Salvi: "Abbiamo individuato l'imbuto nel calendario delle udienze: ogni giudice deve concentrare 20-30 processi in un giorno, con testimoni ed avvocati. Poi d'intesa con i penalisti abbiamo creato norme per evitare i disagi e rispettare gli orari. I risultati si sono visti subito"
Profondo nero
E allora, perché la situazione nazionale continua a peggiorare? Certo, c'è un quantità mostruosa di cause che si riversano nei tribunali, anche per colpa di governi che rendono tutto reato, persino la contrattazione con le prostitute. E c'è un proliferare di ricorsi che non ha pari nel mondo, fatti apposta per alimentare una schiera di avvocati altrettanto vasta. Ma a dispetto di questa tempesta di nuova cause e a dispetto dei primati delle corti modello, la produttività pro capite dei magistrati italiani continua a precipitare. I giudici dei tribunali sono passati da 654 fascicoli chiusi ogni anno del 2001 a soli 533 del 2006. È come se un delitto su cinque venisse dimenticato. Ma se si cerca di dare un peso alla statistica, allora diventa ancora più grave la frenata delle corti d'appello: i 177 casi annuali si sono ridotti a 145. E ogni ritardo in questa fase apre le porte alla prescrizione che cancella i reati e si trasforma nella negazione di ogni giustizia. La radiografia della catastrofe è stata presentata pochi giorni fa dal ministro Angelo Alfano, che però si è poi premurato di firmare un pacchetto di misure destinato a renderla ancora più drammatica. L'arretrato civile è di 5.425.000 fascicoli, quello penale di 3.262.000. Un processo civile dura in media 960 giorni per il primo grado, 50 mesi l'appello. Quasi sette anni prima di arrivare alla Cassazione: un tempo umiliante che distrugge la vita delle aziende e dei cittadini. Nel penale ci vogliono 426 giorni per la prima sentenza e due anni per l'appello: il che significa l'impunità assicurata per un'infinità di crimini. Un altro studio disegna la Caporetto della giustizia. È un lavoro condotto da Riccardo Marselli e Marco Vannini, professori che si dedicano da anni ad applicare valutazioni oggettive nel mondo confuso dei tribunali: ben 17 distretti giudiziari su 29 risultano 'tecnicamente inefficienti'. I due docenti giungono a una conclusione pessimistica: la quantità dei fascicoli che si accumula è tale da annichilire ogni speranza. Senza demolire questa zavorra non si può rendere efficace il sistema. Allo stesso tempo però la ricerca statistica sottolinea come si possa fare di più: se tutti i magistrati si portassero sul livello dei più sgobboni, un decimo dell'arretrato nel civile e il 14 per cento di quello penale potrebbe venire cancellato. Una stima che aumenta nei tribunali meridionali, meno dinamici: un quinto dei fascicoli accatastati nel civile e quasi un quarto di quelli penali scomparirebbero. Utopia?
Senza qualità
Tutti sostengono che i fannulloni sono pochi. Ma dietro i giudici da prima pagina, dietro i pool che sgobbano in silenzio, dietro i pm antimafia che rischiano la vita c'è una massa di magistrati 'senza
qualità'. Hanno fatto del quieto vivere una regola aurea: evitano errori e grane, detestano stakanovismi e protagonismi, diffidano dell'informatica e dei modelli aziendali. Più sciatti che lavativi, talvolta arroganti con i colleghi e maleducati con gli utenti, ma soprattutto poco produttivi. Era rivolto a loro il discorso choc pronunciato due anni fa dal segretario di Md, la corrente 'rossa' delle toghe ma anche quella storicamente più più impegnata sul fronte dell'efficienza: "Nessuno dovrà sentirsi indifferente alla esigenza di un progetto organizzativo minimo per ogni ufficio. Dovremo osare di più, perché nessuno potrà rifugiarsi nella rivendicazione di un ruolo indipendente. Che, se non produce risultati, non serve a nessuno ed è destinato inevitabilmente a declinare", disse l'allora segretario Juan Ignazio Patrone. E ancora: "Il quieto vivere della corporazione non è più compatibile con il dovere di offrire risposte adeguate e qualitativamente decenti alla domanda sociale di giustizia". Belle parole. Ma chi controlla se le toghe lavorano?
Carriera garantita
Finora venivano promossi per anzianità, anche se si rimaneva a compiere le stesse mansioni: oggi quasi sette magistrati su dieci ricevono uno stipendio superiore all'incarico che svolgono. Lo ha analizzato Daniela Marchesi, uno dei responsabili dell'Isae, a 41 anni è considerata la pioniera della materia. Laurea in legge, dottorato in economia, specializzata negli Usa, ha lavorato con Flick alla Giustizia nel 1996 e poi al Tesoro con Padoa-Schioppa. Il suo obiettivo è stabilire quali misure possano incentivare comportamenti virtuosi: cita i testi di Carr Sunstein, il professore chiamato da Obama a guidare il dipartimento per le regole. "La giustizia italiana sarebbe un esempio da manuale: ci sono risorse umane ed economiche in linea con altri paesi, ma otteniamo un risultato generale molto scadente. Analizzando il sistema si vede l'origine del gap: la congerie di norme è fatta in modo tale che incentivi di comportamento vanno tutti in modo sbagliato". Più garanzie, sintetizza, richiedono più tempo. Ed è per questo che tra i soggetti del processo, più che ai magistrati tocca agli avvocati cambiare: "Il magistrato non può velocizzare la sua attività senza rischiare di compromettere le garanzie". Insomma, la professoressa Marchesi non crede in una riforma unilaterale. Pensa che però si possa fare di più per migliorare la selezione e i controlli, soprattutto eliminando le promozioni indiscriminate.
Ma se il lavoro non cambia, allora in cosa consiste la promozione? Nello stipendio, anzitutto. Dal 2003 al 2006 il numero di magistrati ordinari è leggermente diminuito, ma la spesa per le loro paghe è lievitata: oltre il 16 per cento in più. Nel 2003 per 9.043 tra giudici e pm lo Stato spendeva 842 milioni; un triennio dopo l'organico era sceso a 9.019, ma il costo era arrivato a 978 milioni: 136 in più, un incentivo niente male. E i dati mostrano che le retribuzioni medie delle nostre toghe (vedi tabella a pag. 58) sono tra le più alte d'Europa. Il premio c'è, senza legami con la quantità o la qualità. Ma la punizione? Poche le sanzioni del Consiglio superiore. E ancora di meno quelle proposte dagli ispettori ministeriali: anche nel 2008 si sono contate sulle dita di una mano. Il bilancio del Csm, organo di autogoverno della magistratura, può essere letto in chiaro scuro. In un decennio ha giudicato 1.282 toghe. Ne ha condannate 290, spesso con sanzioni simboliche che pesano però sulle nomine chiave; altre 156 si sono dimesse prima del verdetto: in tutto, fa circa 45 'puniti' l'anno sui 9 mila magistrati italiani, lo 0,5 per cento. Pochi. Ma molto più di quello che fanno le altri amministrazioni statali. "Le verifiche statistiche sul lavoro dei magistrati sono insensate. Le gare di nuoto si possono fare in una piscina, non in mezzo a uno tsunami. È la quantità di denunce e ricorsi ha trasformato la giustizia italiana in un continuo tsunami", taglia corto Piercamillo Davigo, protagonista di Mani pulite oggi giudice di Cassazione: "Non voglio fare il corporativo. Ma anche nei militari esistono valutazione periodiche: nel loro sistema l'indipendenza non è un valore, anzi. Eppure le loro valutazioni si concludono sempre con giudizi eccellenti. Perché nessuno se ne preoccupa? Anche loro finiscono con il diventare tutti generali. Se si discute solo della nostra produttività, temo che le finalità siano diverse".
Davigo cita un episodio: il record di produttività di un procuratore aggiunto lombardo. "Era un cialtrone, ma si vantava di avere smaltito 330 mila procedimenti in un anno. Come faceva? Aveva una squadra di carabinieri, armati con un timbro di gomma che riproduceva la sua firma, che su tutti i fascicoli stampavano 'Non doversi procedere perché rimasti ignoti gli autori del reato'".
Il nuovo sistema di valutazioni quadriennali appena introdotto dovrebbe smascherare furbetti del genere. Il meccanismo prevede controlli su quantità e qualità dell'attività di tutti, anche attraverso fascicoli pescati a campione tra quelli smaltiti. "Oggi ci sono nuovi meccanismi di valutazione molto efficaci e concreti. Diamo al sistema il tempo di cambiare", spiega Salvi: "Adesso il magistrato ha forte stimolo ad avere buoni pareri per poi ottenere un incarico direttivo o aspirare a posti specializzati".
C'è un solo limite: l'esame è affidato al consiglio giudiziario, un piccolo parlamento eletto dai magistrati a livello locale su modello del grande Csm nazionale. "In pratica gli eletti devono valutare i loro elettori. È come se in un'azienda le promozioni fossero illimitate e decise dai rappresentanti dei dipendenti. Ve lo immaginate?", spara a zero Carlo Guarnieri, docente a Bologna e tra i più attenti critici 'laici': "Ci vorrebbero commissioni esterne, nominate dal Csm. Così questi meccanismi sono inutili, anche perché non ci sono incentivi: chi non ha voglia di lavorare sa di rischiare poco". Mentre per essere puniti bisogna farla veramente grossa. Ennio Fortuna, procuratore generale di Venezia, ha scritto sulla rivista dell'Associazione magistrati: "Nel nostro ambiente i pochi che ci marciano sono ben noti a tutti". E perché non vengono denunciati? Perché è necessario che gli otto anni di ritardo nello scrivere le motivazioni di una sentenza, con conseguente scarcerazione dei condannati, diventino un caso solo dopo la denuncia di 'Repubblica'? La vicenda di Edi Pinatto, giudice ragazzino passato da Gela a Milano lasciando l'arretrato in sospeso è diventata esemplare. Salvi la paragona alle sabbie mobili: "I ritardi nel completare le sentenze molte volte erano commessi da quelli che tentavano di più di smaltire il lavoro, venendo sommersi per inesperienza". Perché non vengono segnalati? "Pinatto era già stato sanzionato una prima volta. Ma poi è mancata la segnalazione dei responsabili del suo ufficio".
Nei palazzi di giustizia si sente spesso una lamentela, comune tra pm e avvocati. I capi non denunciano i fannulloni. I capi non organizzano il lavoro. I capi non aggrediscono l'arretrato. Quella dei dirigenti è l'altra grande questione, fondamentale per risollevare la produttività. Finora la managerialità non pesava nella designazione: si diventava procuratori e presidenti per anzianità e accordi tra le correnti sindacali. Oggi in teoria dovrebbe essere determinante l'avere dimostrato capacità manageriali. Ma non ci si improvvisa capitani d'azienda: coordinare apparati complessi e ingolfati come i tribunali è una sfida che farebbe paura a qualunque amministratore. Guarnieri propone una soluzione radicale: dividere l'organizzazione del lavoro dai processi, affidando la gestione della prima a un vero manager. In pratica, il metodo delle Asl. "Paragoni non sostenibili. Nascerebbero tante unità giudiziarie locali in Italia: non è che Asl funzionino così bene...", ironizza Salvi.
Il peso dell'arretrato È chiaro, da soli i magistrati non potranno mai risolvere tutto l'handicap. Una ricerca del ministero indica l'impresa come impossibile. Per rianimare le Corti d'appello ci vorrebbero 134 nuovi giudici, tutti Stakanov, tutti preparatissimi e capaci di dare subito il massimo. Senza nuove regole organizzative, però, ogni rinforzo sarebbe inutile. Nella Corte d'appello penale, l'anticamera della prescrizione e quindi la discarica dei processi, servirebbero 32 mesi di lavoro solo per smaltire l'arretrato. Ma con poche regole di buon senso si potrebbe invertire la rotta. Ad esempio la standardizzazione dei fascicoli. Avete mai messo le mani nei faldoni di un processo? Spesso somigliano alle valige di fine vacanza: sciogliendo i lacci esplodono, rivelando una confusione profonda. Quando l'incartamento passa da un pm al suo sostituto, ci vogliono ore solo per trovare il bandolo della matassa. Invece, basterebbero pochi schemi condivisi per non sprecare tempo. Ma la rivoluzione può arrivare anche da un uso integrato dell'informatica: creare procedure a misura di rete. A Milano fino a dieci anni fa nelle udienze civili a turno uno degli avvocati scriveva a mano il verbale. Oggi nella stessa città usando il Web per uno solo dei passaggi del processo civile si sono guadagnati 60 giorni: il decreto ingiuntivo telematico ha fatto risparmiare due mesi di meno ad avvocati, cittadini e tribunale. Cosa ci vuole ad estenderlo a tutta Italia?
Autonomia e corporativismo Alla politica l'efficienza non interessa. E c'è la resistenza 'culturale' di una parte consistente dei magistrati. Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino, ha dedicato un intero capitolo del suo ultimo libro 'La questione immorale' alle "colpe dei magistrati". Racconta tra l'altro del programma informatico che aveva creato per coordinare le agende dei protagonisti del processo ed evitare quei rinvii che sfiancano la giustizia. Un'iniziativa che invece di procurargli una medaglia venne accolta con disprezzo dal Csm. "Quel programma è ancora lì ma nessuno lo usa. E ho capito che il processo penale è quello che è per via delle leggi stupide, delle leggi ad personam, della carenza di uomini e mezzi, ma anche, e in chissà quale percentuale, per via dell'incapacità organizzativa dei magistrati e dei dirigenti degli uffici". Ricorda Giovanni Salvi: "Nel 1998 facemmo un congresso dell'Anm per sensibilizzare sull'efficienza ma andò male. Noi delle correnti progressiste e la dirigenza dell'Anm premevamo perché si facesse un salto in quella direzione, ci fu una resistenza della base. Fu un errore: è stato uno sbaglio cavalcare l'autonomia come corporativismo. A difesa si può dire che quando hai un clima politico intorno di aggressione, questo determina una chiusura in difesa".
E ai governi i giudici fannulloni sono sempre piaciuti: "La politica offre uno scambio ai meno produttivi: io non minaccio i tuoi privilegi, tu non minacciare me", sintetizza il professor Guarnieri. Perché un modello di efficacia la magistratura italiana lo ha creato e imposto nel mondo. Una squadra che lavorava sette giorni su sette, con processi avviati in fretta e una percentuale di condanne irripetibile, un elevato livello di informatizzazione e una produttività mai eguagliata. Si chiamava pool Mani pulite. Lo detestavano politici, imprenditori e grand commis. Lo detestava una fetta consistente degli stessi giudici. Ed è proprio per evitare che quel modello venisse riprodotto ancora oggi si varano riforme su riforme, destinate a distruggere ogni speranza di giustizia.
(26 febbraio 2009)
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