giovedì 12 marzo 2009

Camilleri: Cos’è un italiano


di Andrea Camilleri

[Questo saggio, già su Limesonline, uscirà a fine luglio su LIMES, rivista italiana di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo]

Non sono uno storico, un sociologo, un antropologo, niente di tutto questo. Sono soltanto un raccontastorie, un romanziere italiano particolarmente attento, questo sì, ai suoi connazionali.

E quindi non è un caso che tutte le citazioni a supporto o a pretesto siano tratte dalla letteratura, non da testi di storia.

Perciò tutto quello che segue, e che farà sicuramente storcere la bocca agli addetti ai lavori, va preso col beneficio d’inventario.

Premessa generale

Se si prova a cambiare la domanda in cosa sia un francese o un tedesco, si può rispondere abbastanza agevolmente, magari mettendo in fila tutta una serie di luoghi comuni.

Certo, anche per gli italiani sono stati coniati luoghi comuni, tipo «italiani brava gente», ma non credo che gli abissini gassati o i libici deportati siano dello stesso parere. E, senza andare troppo indietro nella storia, non penso che possano dichiararsi d’accordo nemmeno gli extracomunitari che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste.

Quando si fece l’Europa unita, molti italiani del Nord temettero di perdere, oltre ai soldini, anche la loro identità. Beati loro, che credevano di averne una. Alcuni padani, per affermarla, si sposarono col rito celtico che nessuno sa con esattezza in cosa consista.

Comunque è chiaro che i riti celtici o l’adorazione del fiume Po non hanno nulla da spartire con certi riti del Sud come lo scioglimento del sangue di san Gennaro o il Festino di Santa Rosalia.

Allora, come si fa a chiamare con lo stesso nome di italiano un contadino friulano e un contadino siciliano? Mi pare che ai suoi tempi anche il cancelliere Metternich, di fronte alle aspirazioni unitarie italiane, si sia posto suppergiù la stessa domanda. E aveva poi così tanto torto chi disse che l’Italia era solo un’espressione geografica? E il politico italiano il quale affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani non ammetteva implicitamente che il senso di unità nazionale era da noi ancora del tutto assente?

Prima di andare oltre, occorre chiarire come ho inteso il termine «italiano». Diciamo che ho preso a esempio l’italiano cosiddetto medio («ammesso e non concesso / che l’italiano medio è un poco fesso», cantava Laura Betti un quarantennio fa), vale a dire i risultati di una media statistica e ho cercato d’individuare tra di essi un comune denominatore diverso dal titolo di studio, tipo d’impiego, stipendio mensile eccetera. Ma gli uomini non sono numeri, ciascun individuo ha una propria individualità che rende non solo difficile, ma altamente improbabile la precisione del risultato globale. In altre parole, una ricerca cosiffatta di un comune denominatore rischia di non tener conto di tutto quello che può contraddire l’assunto stesso.

Mi spiego meglio: non ricordo chi sosteneva che se un tale in un giorno si è mangiato due polli e un altro tale invece non ha neppure desinato, statisticamente risulterà che ne hanno mangiato uno a testa.

Allora: per fare un esempio pratico: italiani brava gente? La mia risposta è no, ma ciò non toglie che tra gli italiani ci sia tanta, tantissima brava gente.

Ad ogni modo, tratti comuni sono riscontrabili, alcuni visibili a occhio nudo, altri percepibili soltanto attraverso esami di laboratorio.

È stato durante il periodo fascista che si è messo in atto il massimo sforzo d’unificazione, con provvedimenti di migrazioni interne e d’abolizione di caratteri distintivi regionalistici.

Vennero soprattutto presi di mira i dialetti il cui uso fu severamente proibito a scuola, nei luoghi pubblici, in teatro, al cinema.

Ma subito dopo il Minculpop, ossia il ministero della Cultura popolare, emanò una circolare con la quale le compagnie teatrali dialettali di Gilberto Govi (genovese), dei fratelli De Filippo (napoletana) e di Cesco Baseggio (veneziana) erano esentate dalla proibizione.

Si trattava di una palese contraddizione, tanto più che le tre compagnie riscuotevano un grande successo su tutto il territorio nazionale, facendo un’indiretta propaganda dei dialetti.

Ma questa contraddizione mi offre l’occasione per stabilire un primo tratto comune.

L’uso dei dialetti

È fuor di dubbio che la letteratura dialettale, con Ruzante, Meli, Porta, Belli, Goldoni, Pirandello, De Filippo, abbia spesso prodotto capolavori entrati a far parte del patrimonio culturale dell’intera nazione.

Ma qual era, e qual è, l’uso dei rispettivi dialetti nel parlar comune?

In un articolo degli ultimi anni dell’Ottocento, intitolato «Prosa moderna», Luigi Pirandello così scriveva: «L’uso della lingua italiana, è cosa vecchia detta e ridetta, non esiste. A Milano si parla il dialetto lombardo, a Torino il piemontese, a Firenze il fiorentino, a Venezia il veneziano, a Palermo il siciliano e così via di seguito, ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sintattico particolare: mettete ora un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Bene, per intendersi (…) sentiranno il bisogno di appellarsi a una favella comune, alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti i popoli, poiché l’Italia è unita, alla lingua italiana. (…) Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuole essere la lingua italiana parlatain Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.

Pirandello porta l’esempio di due «non del tutto illetterati». Ma se l’esempio si fosse riferito a due illetterati? Oppure decisamente a due analfabeti?

C’è un racconto di De Roberto, dal titolo La paura, che fotografa la realtà linguistica all’interno di una trincea della guerra ’15-’18: ogni soldato parla il dialetto della regione di provenienza. E tra di loro si intendono a gesti, a occhiate.

Dunque uno dei comuni denominatori degli italiani è stato, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la diversificazione dialettale. Come spesso capita da noi, un tratto unificante è costituito da una diversità.

Posso spiegarmi meglio facendo ancora ricorso a Pirandello. Egli dichiara, in un articolo intitolato «Teatro siciliano», che risale allo stesso periodo di quello citato in precedenza: «Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche – quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse».

Semplificando: di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti.

Il comune sentire italiano, cioè a dire il provare uno stesso sentimento di gioia o di esecrazione davanti a un certo evento, nascerebbe dunque dal pensar dialettale. La concettualizzazione operata dalla lingua porterebbe invece a reazioni non omogenee.

Forse, a ben considerare l’origine notarile del volgare («sao ko kelle terre» eccetera), le osservazioni pirandelliane non risultano tanto campate in aria.

L’avvento della televisione ha in un certo qual modo unificato, omologato in basso, la lingua italiana, ma non è riuscita a far scomparire del tutto le radici dialettali. Sono esse in definitiva che ancor oggi impediscono alla lingua italiana di diventare definitivamente una colonia dell’inglese.

Quella contro i dialetti è stata, per fortuna, un’altra guerra persa dal fascismo (la guerra alle mosche, la battaglia del grano, la battaglia demografica, la battaglia per l’autarchia eccetera).

Già, il fascismo…

La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.

Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.

La marcia su Roma, da Mussolini, fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio.

Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.

All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi.

Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa.

Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.

Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.

Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta.

Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte».

Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.

Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.

Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.

Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.

Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.

A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.

Le particelle di Majorana

Quasi sempre, nella sua lunga storia, l’italiano ha dimostrato di essere esattamente come le particelle di Majorana. Il grande fisico teorico, misteriosamente scomparso nel 1938, elaborò un’ipotesi rivoluzionaria secondo la quale, adopero le parole del fisico Andrea Vacchi, «il partner di antimateria di alcune particelle siano loro stesse». Come dire che non la coesistenza, ma l’inscindibile fusione degli opposti costituisce l’identità.

C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede che l’ha fatto condannare a quell’atroce morte. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine.

Lo stesso soldato italiano che, diciannovenne, a Caporetto scelse di non combattere, lo ritrovi poco più che quarantenne a El Alamein che si batte sino alla morte. E non certo per ragioni, come dire, equivalenti: nel primo caso infatti si trattava di difendere il territorio italiano, nel secondo di mantenere una postazione italiana in territorio straniero.

Lo stesso italiano che divenne emigrante e che venne aiutato in terra straniera da coloro che l’ospitavano, col fornirgli lavoro e abitazione, oggi mal sopporta che in Italia ci sia gente pronta ad accogliere gli extracomunitari.

Lo stesso italiano che amò intensamente Mussolini, che l’applaudì freneticamente a Milano, pochi giorni dopo l’appese per i piedi al distributore di benzina di piazzale Loreto, sempre a Milano.

Lo stesso italiano che una volta stentava a campare in Friuli e mandava la moglie a far la cameriera a Roma o altrove oggi disprezza la cameriera venuta dal Sud.

Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia.

Nell’italiano, dentro la medesima persona, possono insomma convivere contemporaneamente Galileo Galilei e Giordano Bruno, Tommaso Campanella e padre Bresciani, don Abbondio e Savonarola.

L’italiano è ritenuto all’estero persona inaffidabile in quanto spesso non mantiene la parola data o non porta a termine l’impegno preso. E gli stranieri fanno l’esempio della nostra politica estera, capace dall’oggi al domani di mutare radicalmente corso e indirizzo e di far diventare gli alleati di ieri i nemici di oggi.

Per esempio, questo avvenne prima della guerra ’15-’18, lo stesso è avvenuto verso la fine della guerra ’40-’45.

Non si tratta di scarsa serietà, a mio avviso, ma del fatto che nel momento in cui dava la sua parola d’onore, in quell’italiano, e in quel preciso momento, aveva la prevalenza il segno +, ma il suo opposto, il segno –, era pur sempre contestualmente presente e pronto a farsi avanti.

C’è nel film Il Terzo uomo un’esemplare battuta del personaggio interpretato da Orson Welles (ma il regista dichiarò che a scriverla era stato lo stesso Welles) dove viene detto che il Rinascimento in Italia ebbe origine proprio nel periodo più acuto delle guerre fratricide, dei tradimenti, degli assassini.

Mentre dalla lunga, tranquilla, secolare pace degli svizzeri non è nato che l’orologio a cucù.

Questo paradossale segno di contraddizione non solo è riscontrabile con uno sguardo panoramico, ma lo si può continuare a vedere, zoommando lentamente, anche dentro un paese rinascimentale, dentro una via rinascimentale, dentro una casa rinascimentale, dentro un appartamento rinascimentale, dentro un italiano rinascimentale.

E, naturalmente, anche dentro un italiano d’oggi.

Il rutto del pievano

Ossia gli italiani e il loro passato. Cantava Curzio Malaparte negli anni del consenso al fascismo: «Val più un rutto del tuo pievano/ che l’America e la sua boria./ Dietro all’ultimo italiano/ c’è cento secoli di storia».

Senonché sono gli italiani a essere boriosi e non dei cento secoli di storia, che ignorano del tutto, ma dei rutti del loro pievano.

L’italiano non ha una visione totale della storia d’Italia, ha semmai una certa visione di dettaglio, limitata cioè alle minute vicende del suo vicino territorio, del suo paese d’origine, e addirittura del quartiere dove è avvenuta la sua nascita.

Può tuttalpiù rapportarsi con le vicende del paese limitrofo, ma solo perché esso è il suo rivale diretto nel campionato di calcio.

L’italiano è come un marziano caduto nottetempo al centro di quattro case abitate. Gli basterà venire a sapere dove si trova la sua abitazione, la parrocchia, l’osteria, il municipio. La sua curiosità non si spingerà oltre.

Il Palio di Siena con le sue rivalità tra contrade, che arrivano a un fanatismo sconosciuto persino ai tifosi della curva Sud, è lo specchio del forte legame che unisce l’italiano al suo habitat.

E questo spiega in parte il grande successo politico della Lega Nord. All’infuori di questo perimetro, l’orizzonte dell’italiano è da miopi.

Durante la guerra ’15-’18 il maggior numero di renitenti alla leva (mi rifaccio a documenti dello Stato maggiore) e di disertori fu riscontrato tra i contadinisoldati che provenivano dal Sud, specialmente siciliani e calabresi, i quali non capivano perché dovessero andare a difendere i cavolfiori dei contadini del Nord.

Alla domanda se amava la sua patria, Brecht un giorno rispose che non aveva nessuna ragione d’amare la finestra dalla quale era caduto bambino. Gli italiani amano invece quella finestra e il terreno sottostante sul quale hanno battuto la testa.

Nel 1942, mi pare, sulla rivista Primato che dirigeva il ministro Bottai, venne pubblicata una vignetta di Amerigo Bartoli. Mostrava Benedetto Croce seduto nel suo studio intento a scrivere. Alle sue spalle Hegel sbirciava quello che Croce andava scrivendo e poi diceva: «Ciò che più ammiro in Lei, Maestro, è il senso della Storiella».

Ecco, gli italiani non hanno il senso della Storia, ma della Storiella.

Facendo un certo sforzo, riescono a prendere in considerazione la microstoria, ma da queste visioni parziali e minute non riescono a ricostrure la grande visione generale.

Del Risorgimento sanno appena che lo zio Lello, fratello del nonno della madre, era quello scapestrato, quello sventato che abbandonò la famiglia per andare a farsi ammazzare da uno che manco conosceva.

L’unica storia che l’italiano conosce veramente, e a fondo, è quella del gioco del calcio. Non solo sa a memoria nomi, soprannomi, vizi, difetti, gol segnati, mogli e amanti di ogni giocatore che della sua squadra ha fatto parte dalle origini ai giorni nostri, ma anche di quelli delle squadre rivali.

Per la Storia invece è un’altra storia.

Perché la Storia comporta l’uso critico della memoria e gli italiani essenzialmente tendono ad essere smemorati o ad avere la memoria corta. Se la Storia è veramente magistravitae, gli italiani non hanno mai frequentato quella scuola.

La memoria corta

Quella parte del cervello che ha il compito d’archiviare la nostra vita nel suo insieme (non solo i fatti accaduti nel corso dell’esistenza, ma anche le letture che abbiamo fatto, gli spettacoli visti, i concerti ai quali abbiamo assistito, le mostre alle quali siamo andati) possiede, nell’italiano, una sorta di deleteautomatico che entra in azione assai presto, consentendo una scarsissima autonomia alla memoria.

Fatti sgradevoli già ripetutamente accaduti nel corso degli anni, quando si ripresentano, all’italiano sembrano sempre nuovi.

«Non si è mai vista un’inondazione simile a Roma!».

Poi si va a guardare nelle facciate dei palazzi romani e si scopre che alcune lapidi ci mostrano che l’acqua nel Seicento o nel Settecento raggiunse livelli di gran lunga superiori a quelli attuali.

È un esempio banale, lo so.

Ma mi pare che sia stato T.S. Eliot a dire che l’inferno consiste nella memoria, ai dannati viene fatto ricordare tutto, persino quanto costava un etto di margarina nel 1928.

Se l’inferno fosse veramente la memoria, l’italiano andrebbe direttamente in paradiso.

Di un evento che l’ha appassionato, soprattutto perché strombazzato dai giornali e dalle televisioni, l’italiano ne conserva il ricordo solo per qualche settimana, al massimo per qualche mese.

A meno che non si tratti di cronaca nera, allora la persistenza mnemonica è assai più lunga. Ma per una ragione semplicissima e cioè che gli italiani immediatamente si dividono in due partiti ferocemente contrapposti: gli innocentisti e i colpevolisti. Senza la minima cognizione delle carte processuali, senza essere a conoscenza dei dettagli dell’indagine, decidono a primo acchito se l’accusato è innocente o colpevole. A pelle. Al solo guardarlo.

L’innocentista, sia detto per inciso, resterà fermamente ancorato alla propria convinzione anche quando i giudici della Cassazione, di fronte a prove schiaccianti, avranno condannato all’ergastolo il colpevole.

A proposito di giudici e di giustizia. Essendo siciliano, citerò alcuni modi di dire della mia terra.

Cu havi dinari e amicizia / teni ’n culu la giustizia.
(Chi ha denari e amici / se ne può fregare della giustizia.)
Fari la giustizia a manicu di mola. (Far giustizia in modo storto.)
Judici, presidenti e avvucati / ’n Paradisu nun ne attrovati.
(Giudici, presidenti e avvocati / in Paradiso non ne troverete.)
La furca è pi lo poviru, la giustizia pi lu fissa.
(La forca è per il povero, la giustizia per il fesso.)
La liggi per l’amici s’interpreta, pi l’autri s’applica.
(La legge per gli amici s’interpreta, per tutti gli altri s’applica.)
Lu codici è fattu da li cappeddri pi ghiri ’n culo a li coppuli.
(Il codice è fatto dai signori per andare in culo ai berretti.)

Potrei continuare a lungo. La sfiducia nella giustizia è totale, basandosi sulla convinzione diffusa che essa sia uno strumento dei ricchi (che non incappano mai nelle sue maglie) usato contro i poveri. Una giustizia di classe.

E credo che in ogni regione del Sud d’Italia ci siano modi di dire similari.

Colpa dell’amministrazione della giustizia borbonica, m’è capitato di leggere da qualche parte. Le cose non stanno così: se la giustizia borbonica non fu un modello, quella italiana postunitaria non migliorò per niente la situazione, a volte la peggiorò.

L’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876 è in proposito assai esplicita.

Scriveva Pirandello su quegli anni ne I vecchi e i giovani: «Povera Isola, trattata come terra di conquista! (…) e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo, e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali (…) l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…».

Questo divario sull’amministrazione della giustizia al Sud e al Nord, salvo la parentesi fascista, continuò anche dopo la Liberazione, con la magistratura del Sud completamente asservita al potere, cioè alla Dc.

Si deve ad alcuni eroici magistrati siciliani in prima linea nella lotta contro la mafia, e che ci lasciarono la vita, il risveglio della solidarietà dei cittadini verso la giustizia.

Ma il punto massimo del consenso si verificò al tempo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese fece piazza pulita della corruzione partitica e, praticamente, spazzò via la Prima Repubblica.

Dalle ceneri di essa nacque inopinatamente un affarista milanese che seppe trasformarsi in uomo politico. Aveva molti conti aperti con la giustizia. E quindi, appena arrivato al potere, si è dedicato anima e corpo alla distruzione del sistema giudiziario, con continue leggi ad personam e addirittura arrivando ad affermare che i giudici sono esseri mentalmente tarati. È singolare come, in un’occasione, abbia usato contro i giudici le stesse parole adoperate dal gran capo mafioso Totò Riina.

Ad ogni modo, dato il larghissimo seguito di cui dispone, ha abolito il divario tra Sud e Nord: l’italiano di Palermo e quello di Bergamo ora sono felicemente concordi nella sfiducia totale verso la giustizia.

L’italiano che ha preso una multa per sosta vietata, oggi si sente autorizzato a dichiararsi vittima della giustizia.

(10 marzo 2009)

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