La spaccatura fra Est e Ovest, che si è verificata al vertice dell'Unione europea, offre una lezione importante per il futuro della comunità continentale. Fin dalle origini, il dibattito sul processo di unificazione ha visto la continua dialettica fra due visioni contrapposte. Da un lato, coloro secondo i quali andava preferito il sentiero dell'unità politica attraverso successive rinunce dei poteri statali a favore di un'autorità sovranazionale con espliciti fini federativi. Dall'altro, i più pragmatici secondo i quali soltanto l'integrazione degli interessi economici avrebbe potuto creare le premesse necessarie per il salto in avanti verso la creazione di un'unione politica a tutti gli effetti.
Nei fatti è questa seconda opzione che ha prevalso: dapprima con la Comunità del carbone e dell'acciaio, poi con il mercato comune, infine con la più recente nascita dell'euro. Ma con un'eccezione significativa: la decisione, assunta pochi anni fa, di aprire le porte ai paesi dell'ex-blocco sovietico e ad altri minori portando a ben 27 i membri dell'Unione. Questa forzatura del passo politico ha subito fatto venire alla luce seri inconvenienti di governabilità del sistema, compromettendo finora anche il cammino verso il superiore obiettivo di un Trattato costituzionale che valga da pietra angolare degli agognati Stati Uniti d'Europa.
Avevano ed hanno, quindi, ragione i fautori della 'économie d'abord'? Sì. E proprio l'ultimo vertice a 27 di Bruxelles ne ha dato la riprova: non ci può essere una volontà politica unitaria quando gli interessi economici sono troppo divergenti. In altre parole, è vano immaginare di poter assumere decisioni comuni facendo finta di non vedere che quella a 27 non è un'Unione fra pari, ma un'Europa dentro la quale si ritrovano e s'intrecciano almeno tre differenti categorie di paesi.
Quelli senz'altro di serie A come Francia e Germania, che si tirano dietro il Benelux e forse (i guai di Londra oggi sono seri) il Regno Unito. Quelli di serie B che sono principalmente Italia e Spagna con a rischio retrocessione Austria e Portogallo. Infine c'è un'affollata serie C, che comprende ora non solo i paesi dell'Est (a eccezione della Slovenia) ma anche Stati pur appartenenti alla moneta unica, quali Irlanda e Grecia. La crisi finanziaria presente ha un po' rimescolato questa classifica, ma non poi troppo perché le differenze di capacità e di peso economici preesistevano agli scossoni della tempesta in atto. Tanto per fare un esempio, è ridicolo che a Roma si punti il dito contro l'aumento del debito in corso a Parigi o a Berlino perché in ogni caso Francia e Germania resteranno comunque lontanissime da quel rapporto 100 per cento con il Pil da cui l'Italia si sta di nuovo allontanando al rialzo.
In simile scenario la richiesta di un piano globale di salvataggio per i paesi dell'ex-blocco comunista era e rimane fuori dalla realtà economica e, quindi, anche politica.
La scelta di fare, viceversa, interventi caso per caso, paese per paese, non va intesa perciò come abbandono degli ideali unitari, ma va letta come rivalsa di quella realtà dei rapporti di forza economici che è da europeisti stolti ignorare.
(06 marzo 2009)
Nei fatti è questa seconda opzione che ha prevalso: dapprima con la Comunità del carbone e dell'acciaio, poi con il mercato comune, infine con la più recente nascita dell'euro. Ma con un'eccezione significativa: la decisione, assunta pochi anni fa, di aprire le porte ai paesi dell'ex-blocco sovietico e ad altri minori portando a ben 27 i membri dell'Unione. Questa forzatura del passo politico ha subito fatto venire alla luce seri inconvenienti di governabilità del sistema, compromettendo finora anche il cammino verso il superiore obiettivo di un Trattato costituzionale che valga da pietra angolare degli agognati Stati Uniti d'Europa.
Avevano ed hanno, quindi, ragione i fautori della 'économie d'abord'? Sì. E proprio l'ultimo vertice a 27 di Bruxelles ne ha dato la riprova: non ci può essere una volontà politica unitaria quando gli interessi economici sono troppo divergenti. In altre parole, è vano immaginare di poter assumere decisioni comuni facendo finta di non vedere che quella a 27 non è un'Unione fra pari, ma un'Europa dentro la quale si ritrovano e s'intrecciano almeno tre differenti categorie di paesi.
Quelli senz'altro di serie A come Francia e Germania, che si tirano dietro il Benelux e forse (i guai di Londra oggi sono seri) il Regno Unito. Quelli di serie B che sono principalmente Italia e Spagna con a rischio retrocessione Austria e Portogallo. Infine c'è un'affollata serie C, che comprende ora non solo i paesi dell'Est (a eccezione della Slovenia) ma anche Stati pur appartenenti alla moneta unica, quali Irlanda e Grecia. La crisi finanziaria presente ha un po' rimescolato questa classifica, ma non poi troppo perché le differenze di capacità e di peso economici preesistevano agli scossoni della tempesta in atto. Tanto per fare un esempio, è ridicolo che a Roma si punti il dito contro l'aumento del debito in corso a Parigi o a Berlino perché in ogni caso Francia e Germania resteranno comunque lontanissime da quel rapporto 100 per cento con il Pil da cui l'Italia si sta di nuovo allontanando al rialzo.
In simile scenario la richiesta di un piano globale di salvataggio per i paesi dell'ex-blocco comunista era e rimane fuori dalla realtà economica e, quindi, anche politica.
La scelta di fare, viceversa, interventi caso per caso, paese per paese, non va intesa perciò come abbandono degli ideali unitari, ma va letta come rivalsa di quella realtà dei rapporti di forza economici che è da europeisti stolti ignorare.
(06 marzo 2009)
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