mercoledì 11 marzo 2009

Giudizio e pregiudizio


11/3/2009
BRUNO TINTI

Le indagini sullo stupro della Caffarella sono state simili a molte altre: veloci, rapida identificazione dei presunti responsabili, confessione immediata, riconoscimenti da parte delle vittime e dei testimoni, prelievo di campioni di Dna. Ci sono tanti processi così.

Poi la ritrattazione. Anche questo capita molto spesso. Si ritratta quanto detto alla polizia, ai carabinieri, al pubblico ministero. E i magistrati che debbono giudicare cercano di capire quanto vale questa ritrattazione. Da un lato la professionalità e la correttezza delle istituzioni, dall’altro le affermazioni degli imputati che, certo, hanno un interesse evidente a mentire.

A chi credere? Certe volte non è un’indagine difficile. È vero, dice l’imputato, ho confessato, ma mi hanno intimidito, mi hanno minacciato, mi hanno promesso che..., mi hanno picchiato. E io ho confessato, ma non è vero. È possibile, certo, che questo avvenga. Però ci sono prove, testimonianze. Hai confessato e infatti quel teste ti ha riconosciuto; c’è la tua impronta sulla porta, l’arma, il vetro; c’è un filmato in cui ti si vede mentre rapini la banca. C’è il Dna, il tuo, sui vestiti della vittima. E allora non ti crediamo quando ritratti, menti, è solo una disperata difesa. Certe volte è più complicato, non ci sono altre prove che confermino la confessione. Da un lato le istituzioni, polizia, pm, che affermano di aver ricevuto e verbalizzato quella confessione; dall’altra l’imputato che le accusa di violenze e di intimidazioni a cui non ha potuto resistere; e così ha confessato; ma non è vero, sono innocente, dice. Però non ci sono lesioni, non ci sono tracce, non ci sono testimoni delle percosse o delle minacce; e l’imputato ha confessato e non ha scampo se non ritrattando. Non gli si crede quasi mai; non si può credere a una polizia torturatrice, a un pm che non cerca il vero colpevole ma un colpevole pur che sia.

Certe volte è molto più complicato. La confessione è stata resa davvero senza minacce né violenze; ma è stata resa per proteggere qualcun altro. Capita spesso: un minorenne viene arrestato con altri, maggiorenni, per spaccio di droga; scagiona tutti e dice: ho spacciato io, da solo, gli altri stavano comprando. È falso ma lui se la caverà con poco o niente, è minorenne, gli altri finirebbero in galera; così confessa. Poi magari ritratta. E qualche volta capita anche che qualcuno confessi; e poi arriva la prova certa, indiscutibile, che invece è innocente. E ci si chiede: perché allora ha confessato, non c’è nessuno da scagionare, nessuno da proteggere. E magari ti dice: mi hanno picchiato, mi hanno minacciato, mi hanno spaventato. E qui le cose si fanno difficili. Perché, quale altra spiegazione trovare a un comportamento altrimenti inspiegabile? E poi le cose si complicano ancora. Accusare se stessi di un reato che non si è commesso è autocalunnia. Accusare qualcuno di un reato che non ha commesso è calunnia. Sì, però occorre che ciò sia stato fatto con dolo, volontariamente e sapendo che la confessione e le accuse sono false. Ma, se si è costretti a confessare e ad accusare? Se mi spaventano, mi minacciano, mi picchiano fino a quando non cedo e confesso e accuso? Allora, dice l’articolo 46 del codice penale, non sono punibile e «del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza».

Sappiamo poche cose del processo per lo stupro della Caffarella: sappiamo che il Tribunale della Libertà ha annullato l’ordinanza di misura cautelare per lo stupro; secondo il Tribunale, Alexandru Iszoitka Loyos e Karol Racz sono innocenti. Non sappiamo come hanno ragionato i giudici, ma possiamo ragionevolmente pensare che sia stato attribuito maggior valore alla prova del Dna - non era quello di Loyos e Racz - che ai riconoscimenti e alle testimonianze; e l’esperienza insegna che i riconoscimenti sono prove quasi sempre poco tranquillizzanti. Sappiamo che Loyos è stato nuovamente arrestato con l’accusa di calunnia e autocalunnia: avrebbe accusato falsamente se stesso e Racz di aver commesso lo stupro, reato che, secondo il Tribunale della Libertà, non hanno commesso. Proprio non sappiamo perché il pubblico ministero e il gip ritengano che questa condotta sia stata volontaria; non sappiamo perché non abbiano voluto dar credito alla spiegazione di Loyos: mi hanno picchiato, non ho potuto resistere, ho dovuto confessare; ma sono innocente. E, se non sappiamo, non dobbiamo emettere giudizi. La magistratura italiana merita fiducia e rispetto: e ragioni per tenere in prigione Loyos (Racz è detenuto perché accusato di un altro stupro) ce ne debbono essere.

C’è però una cosa importante che dobbiamo ricordare. Nelle aule di giustizia c’è scritto: «La legge è uguale per tutti». È difficile ricordarsene quando il reato è odioso e le persone accusate d’averlo commesso risvegliano le nostre paure più profonde: sono aggressive, violente, estranee, spaventevoli; le sentiamo diverse e ci fanno paura. Però la civiltà di un Paese si misura in questi momenti, quando il pregiudizio rischia di sopraffare il diritto.

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