Ideato dall’unico senatore socialista di Capitol Hill, incluso nel pacchetto di stimoli per l’economia col tacito avallo di Obama e applicato in tempo record da Bank of America, l’emendamento «anti-H-1B» spinge le imprese statunitensi a non assumere stranieri.
In singolare sintonia con il linguaggio protezionista del leader della Lega, Umberto Bossi, secondo il quale «nei posti di lavoro è giusto preferire gli italiani agli stranieri, anche se regolari».
Gli «H-1B» sono i visti grazie ai quali gli studenti stranieri usciti dalle università americane possono trovare lavoro negli Stati Uniti, coronando il sogno dell’integrazione in un Paese al quale hanno dedicato 2, 4 o anche 6 anni d’ininterrotta fatica sui libri e sui computer. Ogni anno vengono assegnati circa 65 mila visti «H-1B» ma questi posti di lavoro, in tempi di recessione, fanno gola ai cittadini americani e per invocare il legame privilegiato fra nazionalità e occupazione si è mosso Bernie Sanders, il senatore indipendente del Vermont che si definisce «socialista» rifiutando di essere contato fra i democratici di Obama perché li considera troppo moderati. Sanders ha scritto di proprio pugno l’emendamento protezionista, in base al quale le aziende che ricevono aiuti pubblici hanno un tetto massimo per le assunzioni di stranieri, e lo ha fatto co-firmare al repubblicano Chuck Grassley, avversario delle fusioni fra aziende americane e non. Assieme hanno raccolto con facilità la maggioranza dei voti, con tanto di via libera di Rahm Emanuel, capo di gabinetto della Casa Bianca. Il testo che seppellisce il sogno americano degli studenti stranieri - anche il padre keniota di Obama lo inseguiva - ha sollevato reazioni allarmate dall’India alla Malaysia mentre il presidente della Business School della Columbia University, Glenn Hubbard, ha parlato di «decisione terribile», imitato da analoghe reazioni di atenei e college che temono di diventare meno attraenti per gli stranieri, con conseguenti danni nei bilanci.
Ma le proteste delle università non hanno trovato ascolto né alla Casa Bianca né al ministero del Tesoro né tantomeno a Capitol Hill anche perché negli stessi giorni la Bank of America si affrettava a vantarsi d’essere diventato il primo gigante di Wall Street protagonista di una riduzione delle «offerte di lavoro agli stranieri come richiesto dalla legge firmata dal presidente Barack Obama». Le ripercussioni sono a pioggia: a migliaia di studenti stranieri, inclusi molti italiani, che avevano già in tasca offerte di lavoro per Wall Street è stato chiesto di «attendere» e gran parte di loro dovranno presto lasciare gli Stati Uniti perché i posti che gli erano stati assegnati con criteri meritocratici andranno a finire a titolari di passaporti americani.
A meno di un mese dal summit del G-20 di Londra, invocato da Obama e Gordon Brown come foro per rilanciare i mercati e frenare il protezionismo, l’emendamento Sanders e le parole di Bossi lasciano intendere come su entrambi i lati dell’Atlantico la recessione più dolorosa dell’ultimo secolo abbia innescato un vortice di emozioni negative che, secondo uno studio del Peterson Institute di Washington, rischiano di «avvelenare i pozzi del commercio mondiale». Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno basti pensare che nel ministero della «Homeland Security», titolare per l’immigrazione, c’è chi sta discutendo l’ipotesi di abolire la lotteria annuale per l’assegnazione delle carte verdi che consentono agli stranieri di lavorare legalmente negli Usa.
Di fronte alla pressione protezionista che viene da sindacati, capi politici locali e aziende timorose della concorrenza sta ai leader nazionali il compito di reagire. Non a caso Dan Ikenson, economista di punta del Cato Institute, chiama in causa l’incertezza di Obama, imputandogli di «non aver ancora parlato con chiarezza contro il protezionismo». Se le esitazioni sono palesi è perché l’inquilino della Casa Bianca si trova a un bivio simile a quello degli altri colleghi del summit G-20, Italia inclusa: deve decidere se cedere alle pressioni politiche interne e alle pulsioni di un elettorato che si impoverisce sacrificando il libero commercio, oppure reagire, difendendo i principi-cardine del libero commercio, rischiando però di perdere popolarità. È insomma, come dicono i veterani di Washington, una prova di leadership. Nell’elenco dei capi di governo che spingono Obama in quest’ultima direzione spiccano per determinazione il canadese Stephen Harpers e il brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva mentre scarseggiano, al momento, i nomi europei.
In singolare sintonia con il linguaggio protezionista del leader della Lega, Umberto Bossi, secondo il quale «nei posti di lavoro è giusto preferire gli italiani agli stranieri, anche se regolari».
Gli «H-1B» sono i visti grazie ai quali gli studenti stranieri usciti dalle università americane possono trovare lavoro negli Stati Uniti, coronando il sogno dell’integrazione in un Paese al quale hanno dedicato 2, 4 o anche 6 anni d’ininterrotta fatica sui libri e sui computer. Ogni anno vengono assegnati circa 65 mila visti «H-1B» ma questi posti di lavoro, in tempi di recessione, fanno gola ai cittadini americani e per invocare il legame privilegiato fra nazionalità e occupazione si è mosso Bernie Sanders, il senatore indipendente del Vermont che si definisce «socialista» rifiutando di essere contato fra i democratici di Obama perché li considera troppo moderati. Sanders ha scritto di proprio pugno l’emendamento protezionista, in base al quale le aziende che ricevono aiuti pubblici hanno un tetto massimo per le assunzioni di stranieri, e lo ha fatto co-firmare al repubblicano Chuck Grassley, avversario delle fusioni fra aziende americane e non. Assieme hanno raccolto con facilità la maggioranza dei voti, con tanto di via libera di Rahm Emanuel, capo di gabinetto della Casa Bianca. Il testo che seppellisce il sogno americano degli studenti stranieri - anche il padre keniota di Obama lo inseguiva - ha sollevato reazioni allarmate dall’India alla Malaysia mentre il presidente della Business School della Columbia University, Glenn Hubbard, ha parlato di «decisione terribile», imitato da analoghe reazioni di atenei e college che temono di diventare meno attraenti per gli stranieri, con conseguenti danni nei bilanci.
Ma le proteste delle università non hanno trovato ascolto né alla Casa Bianca né al ministero del Tesoro né tantomeno a Capitol Hill anche perché negli stessi giorni la Bank of America si affrettava a vantarsi d’essere diventato il primo gigante di Wall Street protagonista di una riduzione delle «offerte di lavoro agli stranieri come richiesto dalla legge firmata dal presidente Barack Obama». Le ripercussioni sono a pioggia: a migliaia di studenti stranieri, inclusi molti italiani, che avevano già in tasca offerte di lavoro per Wall Street è stato chiesto di «attendere» e gran parte di loro dovranno presto lasciare gli Stati Uniti perché i posti che gli erano stati assegnati con criteri meritocratici andranno a finire a titolari di passaporti americani.
A meno di un mese dal summit del G-20 di Londra, invocato da Obama e Gordon Brown come foro per rilanciare i mercati e frenare il protezionismo, l’emendamento Sanders e le parole di Bossi lasciano intendere come su entrambi i lati dell’Atlantico la recessione più dolorosa dell’ultimo secolo abbia innescato un vortice di emozioni negative che, secondo uno studio del Peterson Institute di Washington, rischiano di «avvelenare i pozzi del commercio mondiale». Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno basti pensare che nel ministero della «Homeland Security», titolare per l’immigrazione, c’è chi sta discutendo l’ipotesi di abolire la lotteria annuale per l’assegnazione delle carte verdi che consentono agli stranieri di lavorare legalmente negli Usa.
Di fronte alla pressione protezionista che viene da sindacati, capi politici locali e aziende timorose della concorrenza sta ai leader nazionali il compito di reagire. Non a caso Dan Ikenson, economista di punta del Cato Institute, chiama in causa l’incertezza di Obama, imputandogli di «non aver ancora parlato con chiarezza contro il protezionismo». Se le esitazioni sono palesi è perché l’inquilino della Casa Bianca si trova a un bivio simile a quello degli altri colleghi del summit G-20, Italia inclusa: deve decidere se cedere alle pressioni politiche interne e alle pulsioni di un elettorato che si impoverisce sacrificando il libero commercio, oppure reagire, difendendo i principi-cardine del libero commercio, rischiando però di perdere popolarità. È insomma, come dicono i veterani di Washington, una prova di leadership. Nell’elenco dei capi di governo che spingono Obama in quest’ultima direzione spiccano per determinazione il canadese Stephen Harpers e il brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva mentre scarseggiano, al momento, i nomi europei.
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