Domani la Camera dovrebbe iniziare la discussione in aula del disegno di legge sulle intercettazioni. Dopo una travagliata incubazione, nel corso della quale la stessa maggioranza si è divisa, sembra che sia stato raggiunto un accordo. Dovrebbe essere eliminato il previsto divieto di pubblicare ogni notizia sul contenuto delle indagini, anche di quelle nei confronti delle quali sia caduto il segreto. Le intercettazioni dovrebbero diventare possibili quando siano emersi «rilevanti» o «evidenti» indizi di colpevolezza a carico di qualcuno, senza che sia più necessario che essi siano addirittura «gravi».
Tali modificazioni migliorative sono, in realtà, briciole di fronte a ciò che il Parlamento si appresta a votare nel suo complesso. Perché, se davvero la riforma dovesse diventare legge, si determinerebbe un’involuzione grave nella qualità del nostro ordinamento. Risulterebbero intaccati quantomeno due capisaldi di civiltà: l’incisività delle indagini penali e la libertà di stampa.
Vediamo di riassumere i termini della questione, concentrando l’attenzione sui profili di maggiore impatto. Da un lato, la possibilità d’intercettare soltanto quando siano già emersi indizi di colpevolezza a carico di qualcuno (sono esenti da tale limitazione soltanto i reati di mafia e terrorismo).
Dall’altro, la previsione del carcere per i giornalisti rei di pubblicazioni vietate e la configurazione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori dei giornali.
Il primo profilo interessa l’efficienza delle indagini penali. È noto che le intercettazioni costituiscono uno strumento importante di acquisizione probatoria. Esse sono, d’altronde, soprattutto utili all’inizio delle inchieste, quando gli autori non sono ancora stati individuati, si è aperto un processo contro ignoti e ci si deve orientare fra le diverse ipotesi investigative. La riforma prescrive, invece, di rinunciare al loro utilizzo fino a quando qualcuno risulti attinto da indizi di colpevolezza. Ma se sono già stati acquisiti tali indizi, che bisogno c’è più, molte volte, d’intercettare? D’altronde, quando le intercettazioni potranno essere finalmente disposte perché sono emersi presupposti di colpevolezza, che senso ha obbligare a interromperle, salvo casi assolutamente eccezionali, dopo soli due mesi? Il rischio di vanificare gli accertamenti in corso è, anche qui, evidente.
Il paradosso è che le forze politiche che hanno progettato questa caduta nell’incisività delle indagini sono le stesse che hanno posto a livello alto, nel loro programma, ordine e sicurezza. Nessuna di esse ha pensato che, così facendo, la sicurezza dei cittadini, invece, s’indebolisce fortemente anche con riferimento a delitti che li interessano direttamente, come lo stupro, il furto, la rapina?
Ma veniamo al secondo dei menzionati profili. L’accordo di maggioranza ha eliminato, quantomeno, l’ipotesi più clamorosa di attentato alla libertà di stampa originariamente previsto. Il ripristino della possibilità d’informare i cittadini quantomeno sull’essenzialità delle inchieste in corso non garantirà, certo, una informazione sempre dettagliata, o una spiegazione sempre esauriente di ciò che sta accadendo nei Palazzi di Giustizia. Quantomeno, l’informazione non sarà, peraltro, del tutto oscurata e un minimo di controllo sociale sull’attività della magistratura in fase di indagine sarà ancora possibile.
Sono rimasti, tuttavia, sostanzialmente intatti due diversi aspetti di potenziale impatto sul libero esercizio della stampa. Da un lato l’incremento del carcere previsto per i giornalisti che pubblicano notizie non pubblicabili, dall’altro la previsione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori. L’incremento della previsione del carcere per i giornalisti possiede un’evidente finalità intimidatoria: attento, giornalista, a ciò che scrivi, è il messaggio, perché, prima o poi, finirai in galera. Le sanzioni pecuniarie che si vogliono introdurre a carico degli editori costituiscono una novità della quale, fino ad ora, pochi hanno denunciato i rischi.
Il disegno di legge introduce la responsabilità diretta dell’impresa editrice con riferimento al reato di pubblicazione arbitraria. Questa previsione determinerà costi rilevanti di organizzazione, imponendo la predisposizione di «modelli organizzativi» idonei a prevenire le infrazioni. Ma, soprattutto, renderà gli editori molto attenti a ciò che avviene nelle redazioni. Allo scopo di evitare che il direttore si lasci prendere la mano dall’ansia di pubblicare comunque la notizia, e li costringa a pagare esose sanzioni, useranno modi forti. Ma chi ci garantisce, a questo punto, che tali modi non serviranno, nella prassi, anche a coartare direttori e giornalisti sul terreno dell’indirizzo del giornale, della selezione dei servizi, della scelta dei temi da trattare? Risulterebbe intaccato, a questo punto, un altro dei principi sui quali si fonda la libertà di stampa, cioè l’autonomia del giornalista.
Si dirà, a questo punto, che le restrizioni delle intercettazioni e della stampa sono comunque necessarie di fronte agli abusi, gravi e ricorrenti, di magistratura e giornalismo. Troppi sono stati, nel passato, i privati intercettati, le violazioni della privatezza, le intercettazioni pubblicate, i mostri sbattuti sui giornali.
La mia idea è che gli abusi commessi, non discutibili, vengano comunque oggi enfatizzati a tutt’altro scopo. Che, con la scusa degli abusi (che è possibile rimuovere, si badi, con una ragionevole disciplina di accantonamento e distruzione delle intercettazioni che non interessano le indagini e di divieto di ogni loro divulgazione), qualcuno intenda, in realtà, perseguire l’obiettivo di indebolire, con un colpo solo, potere giudiziario e libera stampa. Due fastidi talvolta insopportabili per molti politici, dell’uno e dell’altro schieramento.
Tali modificazioni migliorative sono, in realtà, briciole di fronte a ciò che il Parlamento si appresta a votare nel suo complesso. Perché, se davvero la riforma dovesse diventare legge, si determinerebbe un’involuzione grave nella qualità del nostro ordinamento. Risulterebbero intaccati quantomeno due capisaldi di civiltà: l’incisività delle indagini penali e la libertà di stampa.
Vediamo di riassumere i termini della questione, concentrando l’attenzione sui profili di maggiore impatto. Da un lato, la possibilità d’intercettare soltanto quando siano già emersi indizi di colpevolezza a carico di qualcuno (sono esenti da tale limitazione soltanto i reati di mafia e terrorismo).
Dall’altro, la previsione del carcere per i giornalisti rei di pubblicazioni vietate e la configurazione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori dei giornali.
Il primo profilo interessa l’efficienza delle indagini penali. È noto che le intercettazioni costituiscono uno strumento importante di acquisizione probatoria. Esse sono, d’altronde, soprattutto utili all’inizio delle inchieste, quando gli autori non sono ancora stati individuati, si è aperto un processo contro ignoti e ci si deve orientare fra le diverse ipotesi investigative. La riforma prescrive, invece, di rinunciare al loro utilizzo fino a quando qualcuno risulti attinto da indizi di colpevolezza. Ma se sono già stati acquisiti tali indizi, che bisogno c’è più, molte volte, d’intercettare? D’altronde, quando le intercettazioni potranno essere finalmente disposte perché sono emersi presupposti di colpevolezza, che senso ha obbligare a interromperle, salvo casi assolutamente eccezionali, dopo soli due mesi? Il rischio di vanificare gli accertamenti in corso è, anche qui, evidente.
Il paradosso è che le forze politiche che hanno progettato questa caduta nell’incisività delle indagini sono le stesse che hanno posto a livello alto, nel loro programma, ordine e sicurezza. Nessuna di esse ha pensato che, così facendo, la sicurezza dei cittadini, invece, s’indebolisce fortemente anche con riferimento a delitti che li interessano direttamente, come lo stupro, il furto, la rapina?
Ma veniamo al secondo dei menzionati profili. L’accordo di maggioranza ha eliminato, quantomeno, l’ipotesi più clamorosa di attentato alla libertà di stampa originariamente previsto. Il ripristino della possibilità d’informare i cittadini quantomeno sull’essenzialità delle inchieste in corso non garantirà, certo, una informazione sempre dettagliata, o una spiegazione sempre esauriente di ciò che sta accadendo nei Palazzi di Giustizia. Quantomeno, l’informazione non sarà, peraltro, del tutto oscurata e un minimo di controllo sociale sull’attività della magistratura in fase di indagine sarà ancora possibile.
Sono rimasti, tuttavia, sostanzialmente intatti due diversi aspetti di potenziale impatto sul libero esercizio della stampa. Da un lato l’incremento del carcere previsto per i giornalisti che pubblicano notizie non pubblicabili, dall’altro la previsione di pesanti sanzioni pecuniarie a carico degli editori. L’incremento della previsione del carcere per i giornalisti possiede un’evidente finalità intimidatoria: attento, giornalista, a ciò che scrivi, è il messaggio, perché, prima o poi, finirai in galera. Le sanzioni pecuniarie che si vogliono introdurre a carico degli editori costituiscono una novità della quale, fino ad ora, pochi hanno denunciato i rischi.
Il disegno di legge introduce la responsabilità diretta dell’impresa editrice con riferimento al reato di pubblicazione arbitraria. Questa previsione determinerà costi rilevanti di organizzazione, imponendo la predisposizione di «modelli organizzativi» idonei a prevenire le infrazioni. Ma, soprattutto, renderà gli editori molto attenti a ciò che avviene nelle redazioni. Allo scopo di evitare che il direttore si lasci prendere la mano dall’ansia di pubblicare comunque la notizia, e li costringa a pagare esose sanzioni, useranno modi forti. Ma chi ci garantisce, a questo punto, che tali modi non serviranno, nella prassi, anche a coartare direttori e giornalisti sul terreno dell’indirizzo del giornale, della selezione dei servizi, della scelta dei temi da trattare? Risulterebbe intaccato, a questo punto, un altro dei principi sui quali si fonda la libertà di stampa, cioè l’autonomia del giornalista.
Si dirà, a questo punto, che le restrizioni delle intercettazioni e della stampa sono comunque necessarie di fronte agli abusi, gravi e ricorrenti, di magistratura e giornalismo. Troppi sono stati, nel passato, i privati intercettati, le violazioni della privatezza, le intercettazioni pubblicate, i mostri sbattuti sui giornali.
La mia idea è che gli abusi commessi, non discutibili, vengano comunque oggi enfatizzati a tutt’altro scopo. Che, con la scusa degli abusi (che è possibile rimuovere, si badi, con una ragionevole disciplina di accantonamento e distruzione delle intercettazioni che non interessano le indagini e di divieto di ogni loro divulgazione), qualcuno intenda, in realtà, perseguire l’obiettivo di indebolire, con un colpo solo, potere giudiziario e libera stampa. Due fastidi talvolta insopportabili per molti politici, dell’uno e dell’altro schieramento.
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