Può darsi che la strategia di Bush incentrata sulla necessaria interdipendenza delle varie crisi del «Greater Middle East» fosse troppo ambiziosa, ma la sensazione è che l’attuale amministrazione stia optando per un frazionamento molto rischioso, che condurrà gli Usa a giocare una serie di battaglie tattiche, lasciando all’Iran il privilegio di muoversi strategicamente sui diversi scacchieri subregionali. Con una mossa audace, ma forse poco lungimirante, Hillary Clinton ha invitato l’Iran a partecipare a una conferenza di pace sull’Afghanistan da tenersi entro la fine del mese.
Anche nel momento più buio della crisi irachena, timidi tentativi di approccio alla repubblica islamica erano stati messi in atto. Senza gran successo, peraltro, al punto che il miglioramento della situazione in Iraq era arrivato dal surge e dalla politica di apertura ai leader tribali della minoranza sunnita, entrambi voluti dal generale Petraeus. Nel caso afghano, si parte da un presupposto corretto, il comune interesse degli alleati della coalizione e degli iraniani a sconfiggere i talebani, ma si sottovaluta la partita strategica che Teheran sta giocando con lucida coerenza da anni.
Se l’interesse iraniano a una sconfitta dei talebani in Afghanistan e Pakistan è evidente, molto meno chiaro è quale contributo potrebbe fattivamente apportare l’Iran alla pacificazione della regione.
I Paesi arabi sunniti, infatti, sono tutt’altro che favorevoli alla prospettiva di un qualche riconoscimento della leadership iraniana nella regione. E quanto poco velleitaria fosse la visione del Greater Middle East, lo dimostra uno sviluppo di solo 48 ore fa: il Marocco ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran dopo l’ennesima minaccia lanciata da Teheran all’indipendenza del Bahrein, definito una «ex provincia iraniana». Quasi le stesse parole con le quali Saddam Hussein liquidò la sovranità kuwaitiana prima dell’invasione del 1990, che scatenò la guerra del Golfo.
Tutt’altro che dubbio, invece, è quale ruolo la teocrazia iraniana stia giocando nell’altra grande crisi mediorientale, cioè quella israelo-palestinese, dove si frappone frontalmente alla ripresa del processo di pace, al punto da essere stato invitato da Abu Mazen a non intromettersi negli affari dei palestinesi. L’Iran non è solo uno dei maggiori finanziatori di Hamas ed Hezbollah, è anche uno dei principali avversari di qualunque riavvicinamento tra Damasco e Gerusalemme e di ogni ipotesi di normalizzazione tra Libano e Israele. Ma soprattutto, come è stato ribadito dai vertici del regime schierati al gran completo appena pochi giorni or sono, fa del non riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele un’arma fondamentale della propria politica estera. Ed è molto improbabile che essa possa essere abbandonata, poiché è la via attraverso la quale il regime rivoluzionario iraniano cerca di conquistare i cuori e le menti delle masse arabe, aggirando i loro governi (ritenuti asserviti all’Occidente), e facendo passare in secondo piano la natura sciita e non araba di chi tanto rumorosamente la agita.
Simili considerazioni sarebbero sufficienti a spingere Obama e Hillary Clinton a una maggior prudenza, prima di cadere nella «trappola iraniana». Conviene alienarsi larga parte del mondo arabo sunnita per compiacere Teheran? E in cambio di che cosa? Resta poi il dubbio se l’attuale amministrazione sarebbe davvero in grado di mantenere una simile politica di fronte alle pressioni che inevitabilmente Israele metterebbe in campo per spingere gli Usa ad abbandonarla, lasciando gli alleati europei col classico «cerino in mano».
Ovviamente, il fatto che l’Iran sia reticente sui propri programmi nucleari, sulla cui esistenza ha mentito per anni in aperta violazione del Trattato di non proliferazione da esso liberamente sottoscritto, e che ormai sia fortemente sospettato di essere a un passo dal raggiungimento di una capacità nucleare militare, non fa che aggiungere dubbi circa la saggezza di questa nuova fase della politica americana. In questo caso, paradossalmente, è l’Iran che sembra essere rimasto intrappolato nella sua stessa tela. Concepito come uno strumento per asseverare le proprie pretese di leadership o, quantomeno, per vedere riconosciuto il proprio ruolo di potenza regionale, il programma nucleare rischia invece di essere il maggiore ostacolo al conseguimento di un simile risultato. Proprio ora che in molti sarebbero pronti a mettere la buona volontà iraniana alla prova, la sua presunta esistenza rende sostanzialmente impossibile il raggiungimento di un fine strategico lungamente perseguito.
Anche nel momento più buio della crisi irachena, timidi tentativi di approccio alla repubblica islamica erano stati messi in atto. Senza gran successo, peraltro, al punto che il miglioramento della situazione in Iraq era arrivato dal surge e dalla politica di apertura ai leader tribali della minoranza sunnita, entrambi voluti dal generale Petraeus. Nel caso afghano, si parte da un presupposto corretto, il comune interesse degli alleati della coalizione e degli iraniani a sconfiggere i talebani, ma si sottovaluta la partita strategica che Teheran sta giocando con lucida coerenza da anni.
Se l’interesse iraniano a una sconfitta dei talebani in Afghanistan e Pakistan è evidente, molto meno chiaro è quale contributo potrebbe fattivamente apportare l’Iran alla pacificazione della regione.
I Paesi arabi sunniti, infatti, sono tutt’altro che favorevoli alla prospettiva di un qualche riconoscimento della leadership iraniana nella regione. E quanto poco velleitaria fosse la visione del Greater Middle East, lo dimostra uno sviluppo di solo 48 ore fa: il Marocco ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran dopo l’ennesima minaccia lanciata da Teheran all’indipendenza del Bahrein, definito una «ex provincia iraniana». Quasi le stesse parole con le quali Saddam Hussein liquidò la sovranità kuwaitiana prima dell’invasione del 1990, che scatenò la guerra del Golfo.
Tutt’altro che dubbio, invece, è quale ruolo la teocrazia iraniana stia giocando nell’altra grande crisi mediorientale, cioè quella israelo-palestinese, dove si frappone frontalmente alla ripresa del processo di pace, al punto da essere stato invitato da Abu Mazen a non intromettersi negli affari dei palestinesi. L’Iran non è solo uno dei maggiori finanziatori di Hamas ed Hezbollah, è anche uno dei principali avversari di qualunque riavvicinamento tra Damasco e Gerusalemme e di ogni ipotesi di normalizzazione tra Libano e Israele. Ma soprattutto, come è stato ribadito dai vertici del regime schierati al gran completo appena pochi giorni or sono, fa del non riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele un’arma fondamentale della propria politica estera. Ed è molto improbabile che essa possa essere abbandonata, poiché è la via attraverso la quale il regime rivoluzionario iraniano cerca di conquistare i cuori e le menti delle masse arabe, aggirando i loro governi (ritenuti asserviti all’Occidente), e facendo passare in secondo piano la natura sciita e non araba di chi tanto rumorosamente la agita.
Simili considerazioni sarebbero sufficienti a spingere Obama e Hillary Clinton a una maggior prudenza, prima di cadere nella «trappola iraniana». Conviene alienarsi larga parte del mondo arabo sunnita per compiacere Teheran? E in cambio di che cosa? Resta poi il dubbio se l’attuale amministrazione sarebbe davvero in grado di mantenere una simile politica di fronte alle pressioni che inevitabilmente Israele metterebbe in campo per spingere gli Usa ad abbandonarla, lasciando gli alleati europei col classico «cerino in mano».
Ovviamente, il fatto che l’Iran sia reticente sui propri programmi nucleari, sulla cui esistenza ha mentito per anni in aperta violazione del Trattato di non proliferazione da esso liberamente sottoscritto, e che ormai sia fortemente sospettato di essere a un passo dal raggiungimento di una capacità nucleare militare, non fa che aggiungere dubbi circa la saggezza di questa nuova fase della politica americana. In questo caso, paradossalmente, è l’Iran che sembra essere rimasto intrappolato nella sua stessa tela. Concepito come uno strumento per asseverare le proprie pretese di leadership o, quantomeno, per vedere riconosciuto il proprio ruolo di potenza regionale, il programma nucleare rischia invece di essere il maggiore ostacolo al conseguimento di un simile risultato. Proprio ora che in molti sarebbero pronti a mettere la buona volontà iraniana alla prova, la sua presunta esistenza rende sostanzialmente impossibile il raggiungimento di un fine strategico lungamente perseguito.
1 commento:
Tutti sapientoni, che equivale a nono capirci niente !
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