Berlusconi mostra una quotidiana insofferenza per le regole che reggono il sistema politico fondato, come vuole la Costituzione, sulla democrazia parlamentare.
Non riesce a dare un ordine alle sue idee e alle sue pulsioni con proposte legislative e riforme organiche. E lo fa mentre il suo governo e la sua maggioranza hanno impegnato il Parlamento a discutere del federalismo. Con le sue battute sulla decretazione come metodo per governare e sul ruolo dei capigruppo delegati a votare per tutti i parlamentari, il Cavaliere apre un altro fronte sul terreno costituzionale senza un progetto e senza una linea concordata nemmeno nel suo personale partito. Il quale si appresta a fare un congresso e l’unica cosa su cui pare si sia aperto un dibattito è il sistema di voto con cui incoronare il Cavaliere: per acclamazione o per alzata di mano.
Ma un partito è tale solo se ha un’idea politico-costituzionale dello Stato e delle sue istituzioni. Dopo la Liberazione fu questo il banco di prova dei partiti che, risorti, diedero vita alla Costituzione. E questa fu la bussola delle forze che per cinquant’anni governarono il Paese o svolsero il ruolo di opposizione. C’è da aggiungere che la grave crisi economica che scuote il mondo suggerisce alle forze politiche, al governo o all’opposizione, non solo di registrare le politiche economiche e sociali per fronteggiare la tempesta, ma anche di verificare se gli strumenti di cui le istituzioni, gli Stati e la comunità internazionale dispongono sono adeguati alla bisogna.
L’Italia vive alla giornata anche perché, questa è la mia opinione, i partiti di governo e di opposizione vivono sulla battuta quotidiana. Il discorso che ho fatto per il Pdl, l’ho già fatto, anche su questo giornale, per il Pd. C’era un vuoto politico e si pensava di riempirlo con lo stare insieme dei Ds e della Margherita. Ricordiamo i fatti più recenti. Nel momento in cui nacque il Pd e Berlusconi dal predellino della sua auto annunciava la fusione tra Forza Italia, Alleanza nazionale e la formazione del Pdl, molti osservatori scrissero che finalmente in Italia si dava vita al bipartitismo e tutto si semplificava.
I risultati elettorali dell’aprile scorso, anche se segnano una forte affermazione del partito di Berlusconi e del suo alleato (la Lega di Bossi) rispetto al Pd di Veltroni e del suo alleato (il partito di Di Pietro), sembrava che dessero ragione a chi pronosticava l’avvento di un bipartitismo virtuoso capace di riformare e consolidare il sistema politico. Non è trascorso nemmeno un anno e lo scenario appare già cambiato e devastato. Basta leggere gli ultimi sondaggi. Il Pd è sceso al 22 per cento e sono cresciuti tutti i partiti che in Parlamento e fuori sono all’opposizione: il partito di Di Pietro e l’Udc di Casini, ma anche i partiti della sinistra radicale coalizzati oggi supererebbero la soglia di sbarramento. Nel centrodestra invece si verifica un modesto cedimento del Pdl e un incremento significativo della Lega.
In questo quadro una cosa appare certa: l’ambizione di Veltroni e dei suoi amici di fare del Pd un partito a «vocazione maggioritaria» è sfumata. Franceschini non ne parla più. È in crisi l’alleanza con Di Pietro ma non si capisce quale sarà il sistema di alleanze del Pd. Comunque mi pare chiaro che le prossime elezioni confermeranno la fine del «bipartitismo» mai nato. Mai nato perché nessuno ci ha creduto: né il Pd che fece l’alleanza con Di Pietro e dopo le elezioni «scoprì» che Berlusconi era Berlusconi; né il Cavaliere il quale pensa che l’opposizione deve riconoscergli la sacralità che i suoi sodali gli hanno decretato. Tutto torna come prima e peggio di prima con la moltiplicazione dei piccoli partiti? Ora c’è anche quello di Grillo. In effetti sembra che, con le forze politiche in campo, le possibilità che il Paese sia retto da un sistema politico semplificato e condiviso siano scarse. È invece possibile che l’indebolimento dell’opposizione crei una dialettica più aperta nella maggioranza e Fini interpreta questa esigenza. Può darsi che il Pd faccia un congresso vero e definisca una politica, le alleanze e un gruppo dirigente. Può darsi che nella sinistra o in una parte di essa maturi il convincimento che una competizione dialettica virtuosa con il Pd sarebbe possibile solo se si ricostruisse un partito socialista. Ma tutto oggi sembra incerto. Non vedo processi politici forti tali da cambiare lo scenario. E nell’incertezza il governo personale nella politica, intrecciato con i poteri che governano l’economia e i media, può segnare la fase che stiamo attraversando. Spero di sbagliarmi.
Non riesce a dare un ordine alle sue idee e alle sue pulsioni con proposte legislative e riforme organiche. E lo fa mentre il suo governo e la sua maggioranza hanno impegnato il Parlamento a discutere del federalismo. Con le sue battute sulla decretazione come metodo per governare e sul ruolo dei capigruppo delegati a votare per tutti i parlamentari, il Cavaliere apre un altro fronte sul terreno costituzionale senza un progetto e senza una linea concordata nemmeno nel suo personale partito. Il quale si appresta a fare un congresso e l’unica cosa su cui pare si sia aperto un dibattito è il sistema di voto con cui incoronare il Cavaliere: per acclamazione o per alzata di mano.
Ma un partito è tale solo se ha un’idea politico-costituzionale dello Stato e delle sue istituzioni. Dopo la Liberazione fu questo il banco di prova dei partiti che, risorti, diedero vita alla Costituzione. E questa fu la bussola delle forze che per cinquant’anni governarono il Paese o svolsero il ruolo di opposizione. C’è da aggiungere che la grave crisi economica che scuote il mondo suggerisce alle forze politiche, al governo o all’opposizione, non solo di registrare le politiche economiche e sociali per fronteggiare la tempesta, ma anche di verificare se gli strumenti di cui le istituzioni, gli Stati e la comunità internazionale dispongono sono adeguati alla bisogna.
L’Italia vive alla giornata anche perché, questa è la mia opinione, i partiti di governo e di opposizione vivono sulla battuta quotidiana. Il discorso che ho fatto per il Pdl, l’ho già fatto, anche su questo giornale, per il Pd. C’era un vuoto politico e si pensava di riempirlo con lo stare insieme dei Ds e della Margherita. Ricordiamo i fatti più recenti. Nel momento in cui nacque il Pd e Berlusconi dal predellino della sua auto annunciava la fusione tra Forza Italia, Alleanza nazionale e la formazione del Pdl, molti osservatori scrissero che finalmente in Italia si dava vita al bipartitismo e tutto si semplificava.
I risultati elettorali dell’aprile scorso, anche se segnano una forte affermazione del partito di Berlusconi e del suo alleato (la Lega di Bossi) rispetto al Pd di Veltroni e del suo alleato (il partito di Di Pietro), sembrava che dessero ragione a chi pronosticava l’avvento di un bipartitismo virtuoso capace di riformare e consolidare il sistema politico. Non è trascorso nemmeno un anno e lo scenario appare già cambiato e devastato. Basta leggere gli ultimi sondaggi. Il Pd è sceso al 22 per cento e sono cresciuti tutti i partiti che in Parlamento e fuori sono all’opposizione: il partito di Di Pietro e l’Udc di Casini, ma anche i partiti della sinistra radicale coalizzati oggi supererebbero la soglia di sbarramento. Nel centrodestra invece si verifica un modesto cedimento del Pdl e un incremento significativo della Lega.
In questo quadro una cosa appare certa: l’ambizione di Veltroni e dei suoi amici di fare del Pd un partito a «vocazione maggioritaria» è sfumata. Franceschini non ne parla più. È in crisi l’alleanza con Di Pietro ma non si capisce quale sarà il sistema di alleanze del Pd. Comunque mi pare chiaro che le prossime elezioni confermeranno la fine del «bipartitismo» mai nato. Mai nato perché nessuno ci ha creduto: né il Pd che fece l’alleanza con Di Pietro e dopo le elezioni «scoprì» che Berlusconi era Berlusconi; né il Cavaliere il quale pensa che l’opposizione deve riconoscergli la sacralità che i suoi sodali gli hanno decretato. Tutto torna come prima e peggio di prima con la moltiplicazione dei piccoli partiti? Ora c’è anche quello di Grillo. In effetti sembra che, con le forze politiche in campo, le possibilità che il Paese sia retto da un sistema politico semplificato e condiviso siano scarse. È invece possibile che l’indebolimento dell’opposizione crei una dialettica più aperta nella maggioranza e Fini interpreta questa esigenza. Può darsi che il Pd faccia un congresso vero e definisca una politica, le alleanze e un gruppo dirigente. Può darsi che nella sinistra o in una parte di essa maturi il convincimento che una competizione dialettica virtuosa con il Pd sarebbe possibile solo se si ricostruisse un partito socialista. Ma tutto oggi sembra incerto. Non vedo processi politici forti tali da cambiare lo scenario. E nell’incertezza il governo personale nella politica, intrecciato con i poteri che governano l’economia e i media, può segnare la fase che stiamo attraversando. Spero di sbagliarmi.
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