Nell’ottobre scorso concludevo un editoriale sulla crisi economica con la famosa risposta della sentinella, nella profezia di Isaia, a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un’altra volta». Se tornassimo a domandare oggi, otterremmo la stessa risposta. Anzi, la notte della recessione si è fatta ancor più profonda e il mattino della ripresa è sempre lontano. Sono però passati cinque mesi da allora e comprendiamo un po’ meglio in quale notte siamo immersi: fuor di metafora, quali siano la gravità, l’origine e la natura di questa recessione.
Le diagnosi sulle origini della crisi stanno infatti convergendo. Negli stessi Stati Uniti, i principali responsabili, si ammette che negli ultimi vent’anni non si sono contrastati, si sono anzi favoriti, squilibri macroeconomici a livello mondiale alla lunga insostenibili, tra un Paese egemone — consumatore e debitore — e Paesi produttori, risparmiatori e creditori. E si ammette che si è lasciato sviluppare il sistema finanziario in modo abnorme, nell’illusione che non fosse possibile un suo collasso per un battito d’ali di farfalla, com’è stata la crisi dei mutui ipotecari. Ne consegue che il sistema dev’essere riformato, per renderlo idoneo a sostenere senza gravi intoppi il processo di crescita reale in un mondo strettamente interconnesso.
E che gli squilibri macroeconomici mondiali vanno ridotti a dimensioni sostenibili. Ma questi sono problemi di lungo periodo, che prenderanno tempo per essere risolti. Il problema urgente — e anche su questo c’è consenso — è riavviare il motore, ricreare rapidamente fiducia, indurre le banche a prestare, le imprese a produrre e investire, i consumatori a consumare. A questo punto si incontrano però preoccupazioni crescenti di «statalismo » espresse da varie forze politiche e da numerosi commentatori di fronte ai massicci interventi del settore pubblico in tutti i Paesi, in alcuni casi a vere e proprie nazionalizzazioni. Sono preoccupazioni comprensibili, ma vanno qualificate. La prima qualificazione riguarda il contesto politico- culturale attuale rispetto ai tempi della grande depressione: basta confrontare le dichiarazioni di Barack Obama con quelle di Franklin Delano Roosevelt per rendersi conto della differenza.
Nessuno si lascia oggi sedurre da disegni di economia regolata, diretta dalla superiore saggezza dello Stato, dai quali molti Paesi furono sedotti durante gli anni Trenta del secolo scorso e oltre. Che ai fallimenti del mercato possano corrispondere fallimenti dello Stato altrettanto e anche più gravi è oggi convinzione comune: trent’anni di egemonia culturale neoliberale non sono passati invano e vedere in Gordon Brown, o in Obama e nei suoi consiglieri economici, dei pericolosi statalisti fa sorridere. Si può discutere dell’opportunità o dell’efficacia di singole misure d’intervento, ma si deve riconoscere che esse sono dettate da ragioni di emergenza e non da una improvvisa conversione di liberisti conclamati ad una filosofia statalista.
Detto questo —e passiamo alla seconda qualificazione —è del tutto ragionevole essere più preoccupati dell’intervento statale in Paesi che non dispongono di una cultura di mercato altrettanto robusta di quella esistente nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Preoccupati, in particolare, per il nostro Paese, nel quale la conversione a quella cultura è stata piuttosto recente ed è tuttora contrastata da una lunga tradizione di assistenzialismo, corporativismo e interventismo pubblico discrezionale. In Italia è sicuramente maggiore il rischio che una situazione di emergenza, la quale esige un maggior intervento dello Stato, possa ridar fiato a forze che non sono mai state realmente sconfitte e sono presenti sia nel governo che all’opposizione, sia a destra che a sinistra. La soglia di attenzione dev’essere dunque più alta.
La terza qualificazione ci riporta negli Stati Uniti, dai quali dipende in larga misura il successo di una strategia di uscita dalla crisi: la Cina sta facendo quanto può, ma l’Europa, come al solito, sta a guardare, nella speranza di agganciarsi a un treno che partirà altrove. Il programma presentato il 26 febbraio scorso consente ora di comprendere il disegno d’insieme di Barack Obama. Un disegno che è nello stesso tempo un poderoso tentativo di rilancio dell’economia, con un intervento pubblico che porterà l’anno prossimo oltre il 12 per cento il rapporto tra il disavanzo e il reddito, ed un netto cambiamento negli orientamenti politici dominanti da trent’anni, dai tempi di Ronald Reagan.
Se il disegno avrà successo e verrà mantenuto, si tratterà di una delle grandi svolte che sono tipiche di quel Paese, di quelle periodiche oscillazioni tra eguaglianza e disuguaglianza, tra predominio della ricchezza e spinte democratiche (populistiche, direbbero i critici), che Kevin Phillips ha mirabilmente descritto in Ricchezza e Democrazia (Garzanti, 2006). Obama sembra infatti voler profittare della crisi per affrontare problemi sociali e politici che erano maturi da tempo e che le presidenze Clinton non erano riuscite ad aggredire, primo fra tutti quello dell’assistenza sanitaria, nello stesso tempo costosa, inefficiente e ingiusta. Obama e i suoi ministri naturalmente sostengono che tra i due aspetti del programma— il rilancio dell’economia e la giustizia sociale— non esiste contrasto, ma anzi piena sinergia.
Altrettanto naturalmente i repubblicani sostengono il contrario. Liberi i commentatori di sostenere l’una tesi o l’altra, purché si tengano nettamente distinte le proprie simpatie politiche —che fanno vedere con favore o sfavore le proposte di Obama, in quanto orientate a sinistra — dalla valutazione del loro impatto sulla fiducia dei consumatori e degli investitori e dunque sul decorso della crisi. L’annuncio del programma non è stato sinora accolto con favore dai mercati, è vero. Ma forse è ancora troppo presto per giudicare. Giudicheremo tra alcuni mesi, quando torneremo a chiedere alla sentinella «a che punto è la notte».
10 marzo 2009
Le diagnosi sulle origini della crisi stanno infatti convergendo. Negli stessi Stati Uniti, i principali responsabili, si ammette che negli ultimi vent’anni non si sono contrastati, si sono anzi favoriti, squilibri macroeconomici a livello mondiale alla lunga insostenibili, tra un Paese egemone — consumatore e debitore — e Paesi produttori, risparmiatori e creditori. E si ammette che si è lasciato sviluppare il sistema finanziario in modo abnorme, nell’illusione che non fosse possibile un suo collasso per un battito d’ali di farfalla, com’è stata la crisi dei mutui ipotecari. Ne consegue che il sistema dev’essere riformato, per renderlo idoneo a sostenere senza gravi intoppi il processo di crescita reale in un mondo strettamente interconnesso.
E che gli squilibri macroeconomici mondiali vanno ridotti a dimensioni sostenibili. Ma questi sono problemi di lungo periodo, che prenderanno tempo per essere risolti. Il problema urgente — e anche su questo c’è consenso — è riavviare il motore, ricreare rapidamente fiducia, indurre le banche a prestare, le imprese a produrre e investire, i consumatori a consumare. A questo punto si incontrano però preoccupazioni crescenti di «statalismo » espresse da varie forze politiche e da numerosi commentatori di fronte ai massicci interventi del settore pubblico in tutti i Paesi, in alcuni casi a vere e proprie nazionalizzazioni. Sono preoccupazioni comprensibili, ma vanno qualificate. La prima qualificazione riguarda il contesto politico- culturale attuale rispetto ai tempi della grande depressione: basta confrontare le dichiarazioni di Barack Obama con quelle di Franklin Delano Roosevelt per rendersi conto della differenza.
Nessuno si lascia oggi sedurre da disegni di economia regolata, diretta dalla superiore saggezza dello Stato, dai quali molti Paesi furono sedotti durante gli anni Trenta del secolo scorso e oltre. Che ai fallimenti del mercato possano corrispondere fallimenti dello Stato altrettanto e anche più gravi è oggi convinzione comune: trent’anni di egemonia culturale neoliberale non sono passati invano e vedere in Gordon Brown, o in Obama e nei suoi consiglieri economici, dei pericolosi statalisti fa sorridere. Si può discutere dell’opportunità o dell’efficacia di singole misure d’intervento, ma si deve riconoscere che esse sono dettate da ragioni di emergenza e non da una improvvisa conversione di liberisti conclamati ad una filosofia statalista.
Detto questo —e passiamo alla seconda qualificazione —è del tutto ragionevole essere più preoccupati dell’intervento statale in Paesi che non dispongono di una cultura di mercato altrettanto robusta di quella esistente nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Preoccupati, in particolare, per il nostro Paese, nel quale la conversione a quella cultura è stata piuttosto recente ed è tuttora contrastata da una lunga tradizione di assistenzialismo, corporativismo e interventismo pubblico discrezionale. In Italia è sicuramente maggiore il rischio che una situazione di emergenza, la quale esige un maggior intervento dello Stato, possa ridar fiato a forze che non sono mai state realmente sconfitte e sono presenti sia nel governo che all’opposizione, sia a destra che a sinistra. La soglia di attenzione dev’essere dunque più alta.
La terza qualificazione ci riporta negli Stati Uniti, dai quali dipende in larga misura il successo di una strategia di uscita dalla crisi: la Cina sta facendo quanto può, ma l’Europa, come al solito, sta a guardare, nella speranza di agganciarsi a un treno che partirà altrove. Il programma presentato il 26 febbraio scorso consente ora di comprendere il disegno d’insieme di Barack Obama. Un disegno che è nello stesso tempo un poderoso tentativo di rilancio dell’economia, con un intervento pubblico che porterà l’anno prossimo oltre il 12 per cento il rapporto tra il disavanzo e il reddito, ed un netto cambiamento negli orientamenti politici dominanti da trent’anni, dai tempi di Ronald Reagan.
Se il disegno avrà successo e verrà mantenuto, si tratterà di una delle grandi svolte che sono tipiche di quel Paese, di quelle periodiche oscillazioni tra eguaglianza e disuguaglianza, tra predominio della ricchezza e spinte democratiche (populistiche, direbbero i critici), che Kevin Phillips ha mirabilmente descritto in Ricchezza e Democrazia (Garzanti, 2006). Obama sembra infatti voler profittare della crisi per affrontare problemi sociali e politici che erano maturi da tempo e che le presidenze Clinton non erano riuscite ad aggredire, primo fra tutti quello dell’assistenza sanitaria, nello stesso tempo costosa, inefficiente e ingiusta. Obama e i suoi ministri naturalmente sostengono che tra i due aspetti del programma— il rilancio dell’economia e la giustizia sociale— non esiste contrasto, ma anzi piena sinergia.
Altrettanto naturalmente i repubblicani sostengono il contrario. Liberi i commentatori di sostenere l’una tesi o l’altra, purché si tengano nettamente distinte le proprie simpatie politiche —che fanno vedere con favore o sfavore le proposte di Obama, in quanto orientate a sinistra — dalla valutazione del loro impatto sulla fiducia dei consumatori e degli investitori e dunque sul decorso della crisi. L’annuncio del programma non è stato sinora accolto con favore dai mercati, è vero. Ma forse è ancora troppo presto per giudicare. Giudicheremo tra alcuni mesi, quando torneremo a chiedere alla sentinella «a che punto è la notte».
10 marzo 2009
Nessun commento:
Posta un commento