La maggior presenza dello Stato nell’economia, resa necessaria dalla rovina finanziaria, restituisce ai poteri pubblici molti spazi che essi avevano ceduto o perso nell’ultimo trentennio. Restituisce allo Stato una forza inaspettata, vasta, benefica nell’immediato ma anche colma di rischi perché potenzialmente invadente, minacciosa non solo per l’economia ma per gli equilibri della democrazia.
Il fatto è che mancano, in buona parte dell’Occidente, classi politiche all’altezza di una svolta così profonda, anche se temporanea. Se si esclude Obama, giunto al potere in coincidenza con il crollo finanziario, numerosi politici che oggi governano le democrazie son figli dell’epoca che ha visto gli spazi della politica restringersi, e quelli del mercato allargarsi smisuratamente. I pericoli di uno Stato prevaricatore non diminuiscono ma aumentano, se il delicato passaggio è gestito da una generazione che per decenni s’è fidata del mercato più che della politica, abituandosi non a servire lo Stato ma a servirsi di esso, e mostrando un’acuta allergia alle regole. Nelle loro mani, lo Stato rinsaldato potrebbe divenire un Leviatano temibile.
Per tutti costoro, il Grande Crollo rischia di somigliare a quello che per Bush fu, nel 2001, la Grande Scossa dell’11 settembre.
Un’occasione non per consolidare la democrazia che si pretendeva tutelare, ma per accentrare il potere, per accentuare l’unilateralismo, per estendere l’ingerenza nel privato del cittadino, per distruggere l’equilibrio dei poteri sino a violare norme costituzionali come l’habeas corpus, che è il diritto di chi è arrestato a sapere perché il suo corpo viene sequestrato. Proprio dai neo-liberisti venne il più potente attacco alle libertà individuali: un’aggressione che la crisi economica può riprodurre, mescolando proditoriamente, come allora, politica dei valori, della paura, degli interessi particolari, del nazionalismo. Proprio da loro venne l’idolatria di una concorrenza sganciata dalla cooperazione. Dal caos d’un mercato senza briglie sono fuoriusciti governanti che hanno edificato la propria forza, oltre che sulla propria ricchezza, sul rifiuto esplicito delle leggi, costituzionali o internazionali. Che hanno spregiato la politica classica chiamandola inutile teatro. In Italia si parla di teatrino: i paesi feroci adorano i diminutivi.
In molti casi sarà questa generazione politica a gestire il ritorno dello Stato, e proprio questo turba. Dirigenti che aborrivano la politica e le istituzioni, che erano avvezzi a servirsene, che sono andati al potere da privati per privatizzare il pubblico, si trovano ora al volante di Stati dilatati, e tenderanno a comportarsi come ieri. Continueranno ad agire fuori dalle regole, a crearsi spazi dove gli spiriti animali del mercato non son temperati né dal senso razionale del limite, né dalla fiducia nel diverso. Con la politica dei valori e della paura si plasmerà la società. La guerra al Grande Crollo diverrebbe una variazione ben poco armoniosa della Guerra al Terrore.
Tale è infatti il potere, se non controbilanciato: cresce senza misura. Lord Acton diceva che naturalmente «tende a corrompere», e «quando è assoluto, corrompe assolutamente». Ciò è tanto più vero per chi lascia nel vago i fini che col governo della cosa pubblica vuol raggiungere, e tende a profittare del momento per accrescere un potere fatto di forza, muscoli, influenza sulle menti, sulla società, sull’informazione, addirittura sul comportamento etico di ciascuno. La vocazione ad accentrare e privatizzare il potere mal tollera le regole, i contropoteri, financo l’opposizione. In Italia si finge addirittura un’unità nazionale che nessun esito elettorale ha sancito. In Germania la Grande Coalizione è nata nelle urne. Da noi strega e corrode le menti, delegittimando chi vorrebbe, classicamente, fare opposizione.
Eppure solo uno spazio pubblico aperto a opinioni diverse permette di sventare i pericoli di uno Stato straripante: uno spazio nel quale a un potere si contrapponga un altro potere, alla maggioranza faccia fronte la minoranza, con la calma che nasce da una lunga storia della democrazia. A questo compito non sono preparate né le destre, influenzate per decenni dal fondamentalismo del mercato, né le sinistre immerse nello sforzo di tagliare le proprie radici stataliste. Ambedue sono figlie del neo-liberismo e del caos che ha generato. Ambedue dovranno affrontare la crisi ripensando il potere, i suoi fini, i suoi limiti.
C’è bisogno di un potere calmo, non rivoluzionario, per diminuire i rischi di uno Stato troppo forte, nocivo all’economia come ai cittadini. Chi sa i rischi dello strapotere non solo accetta ma favorisce la moltiplicazione di contropoteri, di controlli nazionali, europei, se possibile mondiali. Ma può farlo a due condizioni: deve dire i fini del potere politico, e sapere cosa significa senso dello Stato.
Un potere che si proponga fini alti non passa il tempo a criticare il politicamente corretto e gli ideali di giustizia sociale della sinistra. Attività simili perdono ogni senso: valevano quando si credeva che il mercato si regolasse da solo. Lottando contro il politicamente corretto, i fondamentalisti del mercato hanno scoperchiato tabù ma hanno anche finito con lo svilire i fini della politica: fini come la convivenza tra diversi, l’accoglienza dello straniero, la protezione dei bisognosi. Il potere - che dovrebbe essere un mezzo - è divenuto un fine in sé: nichilisticamente, sostiene Gustavo Zagrebelsky.
Non meno importante è la seconda condizione: che concerne il senso dello Stato, delle istituzioni. Un senso che non combacia sempre con lo Stato-nazione. Oggi, il senso dello Stato tocca averlo sia nazionalmente, sia in Europa: e non per ideologia sovrannazionale, come scrive sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia. L’Europa federale già esiste in numerosi campi (frontiere, moneta, commercio, concorrenza, agricoltura, spazi giuridici crescenti). Siccome nessuna mente, neanche la più fine, può dire il domani, nessuno può escludere che in futuro il senso delle istituzioni diventi senso dell’istituzione-Europa. Jean Monnet lo sosteneva agli esordi dell’unione: tutto sta a creare istituzioni comuni, perché «solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge»: «Niente esiste senza le persone, niente dura senza le istituzioni». Nell’odierna crisi finanziaria è evidente: ogni Stato si difende da solo, minacciando col protezionismo l’Europa e se stesso contemporaneamente. Non esiste il sacrificio degli interessi «nazionali» sull’altare europeo, perché i due interessi coincidono più che mai. D’altronde gli europei lo intuiscono: molti irlandesi già si son pentiti del no al Trattato di Lisbona, molti Stati euroscettici sull’orlo della bancarotta riscoprono l’Unione.
In Italia cominciano a farsi sentire voci, anche a destra, che vogliono liberarsi dalla rivoluzione neo-liberista e neo-nazionalista contro le tavole delle leggi. Tremonti invoca regole mondiali e discipline europee, contro il caos del mercatismo. Gianfranco Fini si muove nello stesso senso. Giuseppe Pisanu, ex ministro dell’Interno, mette in guardia il governo, in un’intervista a Metropoli, contro una politica che ignora le regole, e contro lo Stato che si fa invadente, repressivo. Invita quest’ultimo a «governare con sapienza l’immigrazione», a non punirla attizzando cupi risentimenti negli immigrati, a non spezzare «l’unitarietà e l’efficienza del nostro sistema di sicurezza» con le ronde private.
Lo Stato diventa sempre più forte e proprio per questo sono importanti la costituzione, le regole, l’Europa. Solo custodendole si può dire, come Obama giovedì al Parlamento: lo Stato interverrà nell’economia senza danneggiarla ma non rinuncerà a dire la sua, e non mollerà: We are not quitters.
Il fatto è che mancano, in buona parte dell’Occidente, classi politiche all’altezza di una svolta così profonda, anche se temporanea. Se si esclude Obama, giunto al potere in coincidenza con il crollo finanziario, numerosi politici che oggi governano le democrazie son figli dell’epoca che ha visto gli spazi della politica restringersi, e quelli del mercato allargarsi smisuratamente. I pericoli di uno Stato prevaricatore non diminuiscono ma aumentano, se il delicato passaggio è gestito da una generazione che per decenni s’è fidata del mercato più che della politica, abituandosi non a servire lo Stato ma a servirsi di esso, e mostrando un’acuta allergia alle regole. Nelle loro mani, lo Stato rinsaldato potrebbe divenire un Leviatano temibile.
Per tutti costoro, il Grande Crollo rischia di somigliare a quello che per Bush fu, nel 2001, la Grande Scossa dell’11 settembre.
Un’occasione non per consolidare la democrazia che si pretendeva tutelare, ma per accentrare il potere, per accentuare l’unilateralismo, per estendere l’ingerenza nel privato del cittadino, per distruggere l’equilibrio dei poteri sino a violare norme costituzionali come l’habeas corpus, che è il diritto di chi è arrestato a sapere perché il suo corpo viene sequestrato. Proprio dai neo-liberisti venne il più potente attacco alle libertà individuali: un’aggressione che la crisi economica può riprodurre, mescolando proditoriamente, come allora, politica dei valori, della paura, degli interessi particolari, del nazionalismo. Proprio da loro venne l’idolatria di una concorrenza sganciata dalla cooperazione. Dal caos d’un mercato senza briglie sono fuoriusciti governanti che hanno edificato la propria forza, oltre che sulla propria ricchezza, sul rifiuto esplicito delle leggi, costituzionali o internazionali. Che hanno spregiato la politica classica chiamandola inutile teatro. In Italia si parla di teatrino: i paesi feroci adorano i diminutivi.
In molti casi sarà questa generazione politica a gestire il ritorno dello Stato, e proprio questo turba. Dirigenti che aborrivano la politica e le istituzioni, che erano avvezzi a servirsene, che sono andati al potere da privati per privatizzare il pubblico, si trovano ora al volante di Stati dilatati, e tenderanno a comportarsi come ieri. Continueranno ad agire fuori dalle regole, a crearsi spazi dove gli spiriti animali del mercato non son temperati né dal senso razionale del limite, né dalla fiducia nel diverso. Con la politica dei valori e della paura si plasmerà la società. La guerra al Grande Crollo diverrebbe una variazione ben poco armoniosa della Guerra al Terrore.
Tale è infatti il potere, se non controbilanciato: cresce senza misura. Lord Acton diceva che naturalmente «tende a corrompere», e «quando è assoluto, corrompe assolutamente». Ciò è tanto più vero per chi lascia nel vago i fini che col governo della cosa pubblica vuol raggiungere, e tende a profittare del momento per accrescere un potere fatto di forza, muscoli, influenza sulle menti, sulla società, sull’informazione, addirittura sul comportamento etico di ciascuno. La vocazione ad accentrare e privatizzare il potere mal tollera le regole, i contropoteri, financo l’opposizione. In Italia si finge addirittura un’unità nazionale che nessun esito elettorale ha sancito. In Germania la Grande Coalizione è nata nelle urne. Da noi strega e corrode le menti, delegittimando chi vorrebbe, classicamente, fare opposizione.
Eppure solo uno spazio pubblico aperto a opinioni diverse permette di sventare i pericoli di uno Stato straripante: uno spazio nel quale a un potere si contrapponga un altro potere, alla maggioranza faccia fronte la minoranza, con la calma che nasce da una lunga storia della democrazia. A questo compito non sono preparate né le destre, influenzate per decenni dal fondamentalismo del mercato, né le sinistre immerse nello sforzo di tagliare le proprie radici stataliste. Ambedue sono figlie del neo-liberismo e del caos che ha generato. Ambedue dovranno affrontare la crisi ripensando il potere, i suoi fini, i suoi limiti.
C’è bisogno di un potere calmo, non rivoluzionario, per diminuire i rischi di uno Stato troppo forte, nocivo all’economia come ai cittadini. Chi sa i rischi dello strapotere non solo accetta ma favorisce la moltiplicazione di contropoteri, di controlli nazionali, europei, se possibile mondiali. Ma può farlo a due condizioni: deve dire i fini del potere politico, e sapere cosa significa senso dello Stato.
Un potere che si proponga fini alti non passa il tempo a criticare il politicamente corretto e gli ideali di giustizia sociale della sinistra. Attività simili perdono ogni senso: valevano quando si credeva che il mercato si regolasse da solo. Lottando contro il politicamente corretto, i fondamentalisti del mercato hanno scoperchiato tabù ma hanno anche finito con lo svilire i fini della politica: fini come la convivenza tra diversi, l’accoglienza dello straniero, la protezione dei bisognosi. Il potere - che dovrebbe essere un mezzo - è divenuto un fine in sé: nichilisticamente, sostiene Gustavo Zagrebelsky.
Non meno importante è la seconda condizione: che concerne il senso dello Stato, delle istituzioni. Un senso che non combacia sempre con lo Stato-nazione. Oggi, il senso dello Stato tocca averlo sia nazionalmente, sia in Europa: e non per ideologia sovrannazionale, come scrive sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia. L’Europa federale già esiste in numerosi campi (frontiere, moneta, commercio, concorrenza, agricoltura, spazi giuridici crescenti). Siccome nessuna mente, neanche la più fine, può dire il domani, nessuno può escludere che in futuro il senso delle istituzioni diventi senso dell’istituzione-Europa. Jean Monnet lo sosteneva agli esordi dell’unione: tutto sta a creare istituzioni comuni, perché «solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge»: «Niente esiste senza le persone, niente dura senza le istituzioni». Nell’odierna crisi finanziaria è evidente: ogni Stato si difende da solo, minacciando col protezionismo l’Europa e se stesso contemporaneamente. Non esiste il sacrificio degli interessi «nazionali» sull’altare europeo, perché i due interessi coincidono più che mai. D’altronde gli europei lo intuiscono: molti irlandesi già si son pentiti del no al Trattato di Lisbona, molti Stati euroscettici sull’orlo della bancarotta riscoprono l’Unione.
In Italia cominciano a farsi sentire voci, anche a destra, che vogliono liberarsi dalla rivoluzione neo-liberista e neo-nazionalista contro le tavole delle leggi. Tremonti invoca regole mondiali e discipline europee, contro il caos del mercatismo. Gianfranco Fini si muove nello stesso senso. Giuseppe Pisanu, ex ministro dell’Interno, mette in guardia il governo, in un’intervista a Metropoli, contro una politica che ignora le regole, e contro lo Stato che si fa invadente, repressivo. Invita quest’ultimo a «governare con sapienza l’immigrazione», a non punirla attizzando cupi risentimenti negli immigrati, a non spezzare «l’unitarietà e l’efficienza del nostro sistema di sicurezza» con le ronde private.
Lo Stato diventa sempre più forte e proprio per questo sono importanti la costituzione, le regole, l’Europa. Solo custodendole si può dire, come Obama giovedì al Parlamento: lo Stato interverrà nell’economia senza danneggiarla ma non rinuncerà a dire la sua, e non mollerà: We are not quitters.
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