Ciò che ieri Umberto Bossi ha detto a Gad Lerner, sostenendo che nell’assegnazione di posti di lavoro e di abitazioni la preferenza deve essere accordata agli italiani, segna indubitabilmente un passaggio nella percezione della crisi e delle sue ricadute sociali. Per la prima volta un rappresentante di governo sancisce che sono i tempi difficili a imporre di discriminare fra i cittadini italiani e gli «altri». Bossi, naturalmente, interpreta una reazione immediata, più ancora che un diffuso senso comune, di fronte alla crisi: quando la recessione incomincia a mordere davvero, il primo istinto è quello di fare quadrato, impedendo che la propria posizione sociale ed economica sia messa a rischio da forze esterne.
Anche quando esse risultino in realtà ben radicate ormai dentro i confini della nostra società. In fondo, Bossi ha dato voce a un sentimento che si va allargando a macchia d’olio nell’Europa di oggi: quello di reintrodurre la distinzione fra «noi» e «loro» che la globalizzazione, con la radicalità della sua espansione, era parsa mettere in discussione. È il sentimento espresso dai lavoratori inglesi che hanno protestato contro gli operai italiani delle raffinerie, accusati di accettare condizioni economiche inferiori alle loro e dunque di minare la stabilità delle loro occupazioni. Probabilmente, Bossi e la Lega Nord si sono accorti, come già è avvenuto altre volte in passato, che serpeggia un’avversione nei confronti delle figure ravvisate come la personificazione dei pericoli della globalizzazione e pensano di doverla rappresentare, in parte per giustificarla e ricavarne consenso politico e in parte perché intuiscono che questi atteggiamenti non possono essere semplicemente censurati od oscurati.
Chi se la prende oggi con gli immigrati e li accusa di sottrarre lavoro a sé e ai propri concittadini non dispone ovviamente di una comprensione effettiva del mercato del lavoro. Bastava osservare i cantieri edili degli ultimi anni per accorgersi della presenza prevalente di una popolazione di lavoro che si era sostituita agli operai locali perché da tempo costoro si erano ritirati da quelle attività. Ma chi è pronto a unirsi alla protesta verso la presenza eccessiva dei lavoratori stranieri lo fa sull’onda di un timore che non nasce da una valutazione razionale. Lo fa perché vuole sentirsi confortato da altre voci, magari più forti e autorevoli della sua, decise ad affermare che è il lavoro italiano a dover essere difeso in primo luogo, così come la produzione va riportata per quanto si può dentro il territorio nazionale.
Il sistema globale non ha mai goduto di cattiva fama come adesso. Quanti anni sono passati dalla rivolta del movimento no global di Seattle e di Genova? All’inizio del nostro secolo era la sinistra estrema a mobilitarsi contro un mondo senza frontiere. Oggi agli occhi di molti la globalizzazione appare come una tendenza irrazionale e distruttiva. Un’organizzazione inutilmente complessa che si ritorce contro i soggetti stessi che l’hanno realizzata. Non pochi devono aver pensato che un po’ di ragione i lavoratori inglesi devono avercela, ammesso che sia vero che gli italiani si accontentano di guadagnare meno di loro. E di sicuro è ancora maggiore il numero di quanti ritengono che faccia bene Sarkozy a concedere gli aiuti all’industria francese, a patto di lasciare le fabbriche dove sono e come sono. Di questi succhi si nutre un atteggiamento che vede nel cosmopolitismo promosso dall’internazionalizzazione dell’economia una costruzione artificiale e dannosa.
Finora abbiamo guardato soltanto alle conseguenze economiche della crisi. Ci siamo soffermati sulla caduta dei mercati, delle Borse e della produzione. Man mano che il cammino di questa durissima recessione avanza, tuttavia, dovremo incominciare a preoccuparci dei suoi aspetti politici. È impossibile ritenere che lo stato d’inquietudine e di disagio sempre più acuto non assuma forme politiche. Che non si sviluppino manifestazioni e tendenze inclini a far leva sul malessere per indicare soluzioni radicali e sommarie della crisi.
La sinistra europea di governo, che si è identificata nell’ultimo decennio con la modernizzazione derivante dalla crescente espansione internazionale dell’economia, ha perso contatto con quell’universo popolare che si sente penalizzato da una «società aperta» in cui soltanto i soggetti più forti si muovono a loro agio. È naturale perciò che questi strati sociali si rivelino sensibili a chi promette di ripristinare un ordine naturale delle cose, turbato dagli sconvolgimenti recenti. Per questo, è urgente dialogare con coloro che manifestano le loro paure davanti alla crisi. Per mostrare loro come all’origine della crisi stia un assetto mondiale non più imperniato sull’Occidente, di fronte a cui è illusorio cercare riparo in una cittadella fortificata.
Anche quando esse risultino in realtà ben radicate ormai dentro i confini della nostra società. In fondo, Bossi ha dato voce a un sentimento che si va allargando a macchia d’olio nell’Europa di oggi: quello di reintrodurre la distinzione fra «noi» e «loro» che la globalizzazione, con la radicalità della sua espansione, era parsa mettere in discussione. È il sentimento espresso dai lavoratori inglesi che hanno protestato contro gli operai italiani delle raffinerie, accusati di accettare condizioni economiche inferiori alle loro e dunque di minare la stabilità delle loro occupazioni. Probabilmente, Bossi e la Lega Nord si sono accorti, come già è avvenuto altre volte in passato, che serpeggia un’avversione nei confronti delle figure ravvisate come la personificazione dei pericoli della globalizzazione e pensano di doverla rappresentare, in parte per giustificarla e ricavarne consenso politico e in parte perché intuiscono che questi atteggiamenti non possono essere semplicemente censurati od oscurati.
Chi se la prende oggi con gli immigrati e li accusa di sottrarre lavoro a sé e ai propri concittadini non dispone ovviamente di una comprensione effettiva del mercato del lavoro. Bastava osservare i cantieri edili degli ultimi anni per accorgersi della presenza prevalente di una popolazione di lavoro che si era sostituita agli operai locali perché da tempo costoro si erano ritirati da quelle attività. Ma chi è pronto a unirsi alla protesta verso la presenza eccessiva dei lavoratori stranieri lo fa sull’onda di un timore che non nasce da una valutazione razionale. Lo fa perché vuole sentirsi confortato da altre voci, magari più forti e autorevoli della sua, decise ad affermare che è il lavoro italiano a dover essere difeso in primo luogo, così come la produzione va riportata per quanto si può dentro il territorio nazionale.
Il sistema globale non ha mai goduto di cattiva fama come adesso. Quanti anni sono passati dalla rivolta del movimento no global di Seattle e di Genova? All’inizio del nostro secolo era la sinistra estrema a mobilitarsi contro un mondo senza frontiere. Oggi agli occhi di molti la globalizzazione appare come una tendenza irrazionale e distruttiva. Un’organizzazione inutilmente complessa che si ritorce contro i soggetti stessi che l’hanno realizzata. Non pochi devono aver pensato che un po’ di ragione i lavoratori inglesi devono avercela, ammesso che sia vero che gli italiani si accontentano di guadagnare meno di loro. E di sicuro è ancora maggiore il numero di quanti ritengono che faccia bene Sarkozy a concedere gli aiuti all’industria francese, a patto di lasciare le fabbriche dove sono e come sono. Di questi succhi si nutre un atteggiamento che vede nel cosmopolitismo promosso dall’internazionalizzazione dell’economia una costruzione artificiale e dannosa.
Finora abbiamo guardato soltanto alle conseguenze economiche della crisi. Ci siamo soffermati sulla caduta dei mercati, delle Borse e della produzione. Man mano che il cammino di questa durissima recessione avanza, tuttavia, dovremo incominciare a preoccuparci dei suoi aspetti politici. È impossibile ritenere che lo stato d’inquietudine e di disagio sempre più acuto non assuma forme politiche. Che non si sviluppino manifestazioni e tendenze inclini a far leva sul malessere per indicare soluzioni radicali e sommarie della crisi.
La sinistra europea di governo, che si è identificata nell’ultimo decennio con la modernizzazione derivante dalla crescente espansione internazionale dell’economia, ha perso contatto con quell’universo popolare che si sente penalizzato da una «società aperta» in cui soltanto i soggetti più forti si muovono a loro agio. È naturale perciò che questi strati sociali si rivelino sensibili a chi promette di ripristinare un ordine naturale delle cose, turbato dagli sconvolgimenti recenti. Per questo, è urgente dialogare con coloro che manifestano le loro paure davanti alla crisi. Per mostrare loro come all’origine della crisi stia un assetto mondiale non più imperniato sull’Occidente, di fronte a cui è illusorio cercare riparo in una cittadella fortificata.
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