Dev’essere rimasta di sale Kimberley Swann, la ragazza inglese di cui parlavano ieri un po’ tutti i giornali. Assunta da pochi mesi come impiegata presso una ditta privata che si occupa di rapporti con l’Asia, ha ricevuto una lettera di licenziamento con una motivazione inconsueta: aver screditato l’azienda parlandone male su Facebook, il sito Internet di «socializzazione» più di moda del momento (175 milioni di utenti).
Facebook è un luogo in cui si scambiano ogni sorta di informazioni-emozioni-proposte fra persone conosciute e sconosciute, fra vecchi amici e amici nuovi, fra professionisti della rete e semplici navigatori. Di qui l’equivoco: presumibilmente la ragazza inglese ha usato Facebook come si usa un canale privato (posta, telefono, e-mail).
Senza rendersi conto che Facebook è un luogo pubblico, sia pur governato da particolari regole e limitazioni. Kimberley, si potrebbe dire, ha avuto l’audacia di confidarsi in pubblico, incappando così in un vero e proprio ossimoro della vita sociale. La confidenza, infatti, è per sua natura personale, privata, vincolata alla riservatezza, e quindi l’idea di confidarsi in pubblico è tanto strampalata quanto quella di parlare a un cactus (l’attività preferita di Spike, mitico fratello di Snoopy).
Non so come siano andate esattamente le cose, ma l’episodio è rivelatore. Chi incappa in un incidente del genere sembra non rendersi conto del lato oscuro della società della comunicazione. Siamo abituati a pensare che l’interconnessione universale sia un pasto gratis, una meravigliosa possibilità regalata a tutti di poter trasmettere e ricevere informazioni, conoscere persone, operare a distanza. E invece essa è anche una cosa diversa, che richiederà molto tempo ancora per essere pienamente compresa nei suoi effetti.
Del resto è sempre stato così. Le società imparano molto lentamente a fare i conti con le conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche. Quando Gutenberg inventò la stampa, intorno al 1450, nessuno poteva prevedere che in futuro essa avrebbe alimentato l’etica protestante e reso possibili le democrazie di massa. Così, quando le tecnologie di riproduzione dei suoni e soprattutto delle immagini (fotografia e cinema) resero illimitatamente riproducibili le opere d’arte, Walter Benjamin fu tra i pochi a intravedere le profonde conseguenze che questo avrebbe avuto sulla fruizione delle opere stesse, prima fra tutte la «perdita dell’aura», ossia di quell’alone di sacralità, autorevolezza, unicità che aveva da sempre circondato i capolavori artistici (il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è della metà degli Anni 30).
Oggi, con il trionfo di Internet e delle telecomunicazioni, siamo ancora meno preparati a capire tutti gli effetti della rivoluzione tecnologica in atto, specialmente quelli inquietanti. L’altra faccia dell’interconnessione globale, quella che i cantori delle virtù della rete non vedono, è la distruzione della privacy. Se Walter Benjamin fosse vivo oggi, forse scriverebbe La privacy nell’epoca della sua impossibilità tecnica.
Perché la società della comunicazione distrugge la privacy? Una ragione ovvia, visibile a occhio nudo, è che tutti i nostri comportamenti sono diventati «tracciabili». Qualsiasi cosa facciamo - telefonare, usare una carta di credito, entrare in un negozio video-sorvegliato, compilare un modulo di acquisto, collegarsi a Internet, usare un personal computer - depositiamo tracce informatiche indelebili del nostro passaggio, per non parlare delle tracce biologiche che continuamente lasciamo sugli oggetti, le persone, gli ambienti, e che l’analisi del Dna rende utilizzabili a fini di identificazione. Qualsiasi cosa facciamo può essere ripresa da un telefonino, di cui manco ci accorgiamo. Qualsiasi cosa diciamo può essere catturata da un registratore, a nostra insaputa. Qualsiasi immagine o voce ci abbiano carpito, può tranquillamente finire su YouTube, o essere riprodotta, diffusa, venduta nei circuiti più impensabili.
Ma c’è una ragione più profonda che mina la privacy, e quella ragione siamo noi stessi, o meglio i nostri comportamenti quotidiani. Nel giro di pochissimi decenni la nostra privacy ha subito l’onda d’urto del nostro esibizionismo. Proprio mentre da ogni parte veniva proclamato il diritto alla riservatezza, fino al punto da considerare invasiva la pubblicazione dei voti finali sui tabelloni scolastici, l’evoluzione del costume procedeva in direzione diametralmente opposta. Il proprio privato, per quanto insignificante o addirittura riprovevole, viene continuamente e rumorosamente spiattellato all’attenzione di tutti, in treno come in aereo, al bar come al ristorante, in televisione come su Internet. Il sentimento del pudore si è ritirato come un ghiacciaio attaccato dal riscaldamento globale. Il «lei» sta soccombendo al «tu», nonostante le resistenze di alcuni (l’altro giorno alla radio ho sentito Cruciani, l’ottimo conduttore della Zanzara, costretto a chiedere a un telespettatore che gli dava del tu: scusi, lei ed io ci conosciamo?). Insomma, come in una scatola di sardine, siamo tutti vicini a tutti, continuamente invasi e sempre potenzialmente invasori. Il medesimo studente che chiede privacy quando si tratta della sua pagella, non esita a riversare su Internet le immagini a luci rosse di compagne e fidanzate. Il cittadino che non vuole essere spiato o intercettato è il primo a sognare di finire su YouTube.
È vero, con una e-mail possiamo contattare chiunque a costo zero. Ma proprio perché riceviamo decine, centinaia, migliaia di e-mail il nostro tempo è sequestrato da un lavoro opprimente di selezione, autodifesa, smistamento, che sottrae energia a occupazioni ben più degne. Lo spazio della nostra privacy si sta consumando, ma noi non siamo nella condizione di accorgercene. Non solo perché siamo inebriati dalla libertà che la rete ci promette. Ma perché confessarci, esporci, mostrarci ci piace. E quindi confondiamo spazio privato e spazio pubblico. Non ci rendiamo conto che la privacy, il diritto alla privacy, è tante cose insieme. Diritto a non rivelare tutto di noi. Diritto a non far sapere a tutti quel che facciamo sapere a pochi. Ma anche diritto a non sapere i fatti altrui. A non interagire con tutti. A non essere invasi. Insomma, diritto a una distanza che, con il passare del tempo, sta diventando il bene più raro.
Facebook è un luogo in cui si scambiano ogni sorta di informazioni-emozioni-proposte fra persone conosciute e sconosciute, fra vecchi amici e amici nuovi, fra professionisti della rete e semplici navigatori. Di qui l’equivoco: presumibilmente la ragazza inglese ha usato Facebook come si usa un canale privato (posta, telefono, e-mail).
Senza rendersi conto che Facebook è un luogo pubblico, sia pur governato da particolari regole e limitazioni. Kimberley, si potrebbe dire, ha avuto l’audacia di confidarsi in pubblico, incappando così in un vero e proprio ossimoro della vita sociale. La confidenza, infatti, è per sua natura personale, privata, vincolata alla riservatezza, e quindi l’idea di confidarsi in pubblico è tanto strampalata quanto quella di parlare a un cactus (l’attività preferita di Spike, mitico fratello di Snoopy).
Non so come siano andate esattamente le cose, ma l’episodio è rivelatore. Chi incappa in un incidente del genere sembra non rendersi conto del lato oscuro della società della comunicazione. Siamo abituati a pensare che l’interconnessione universale sia un pasto gratis, una meravigliosa possibilità regalata a tutti di poter trasmettere e ricevere informazioni, conoscere persone, operare a distanza. E invece essa è anche una cosa diversa, che richiederà molto tempo ancora per essere pienamente compresa nei suoi effetti.
Del resto è sempre stato così. Le società imparano molto lentamente a fare i conti con le conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche. Quando Gutenberg inventò la stampa, intorno al 1450, nessuno poteva prevedere che in futuro essa avrebbe alimentato l’etica protestante e reso possibili le democrazie di massa. Così, quando le tecnologie di riproduzione dei suoni e soprattutto delle immagini (fotografia e cinema) resero illimitatamente riproducibili le opere d’arte, Walter Benjamin fu tra i pochi a intravedere le profonde conseguenze che questo avrebbe avuto sulla fruizione delle opere stesse, prima fra tutte la «perdita dell’aura», ossia di quell’alone di sacralità, autorevolezza, unicità che aveva da sempre circondato i capolavori artistici (il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è della metà degli Anni 30).
Oggi, con il trionfo di Internet e delle telecomunicazioni, siamo ancora meno preparati a capire tutti gli effetti della rivoluzione tecnologica in atto, specialmente quelli inquietanti. L’altra faccia dell’interconnessione globale, quella che i cantori delle virtù della rete non vedono, è la distruzione della privacy. Se Walter Benjamin fosse vivo oggi, forse scriverebbe La privacy nell’epoca della sua impossibilità tecnica.
Perché la società della comunicazione distrugge la privacy? Una ragione ovvia, visibile a occhio nudo, è che tutti i nostri comportamenti sono diventati «tracciabili». Qualsiasi cosa facciamo - telefonare, usare una carta di credito, entrare in un negozio video-sorvegliato, compilare un modulo di acquisto, collegarsi a Internet, usare un personal computer - depositiamo tracce informatiche indelebili del nostro passaggio, per non parlare delle tracce biologiche che continuamente lasciamo sugli oggetti, le persone, gli ambienti, e che l’analisi del Dna rende utilizzabili a fini di identificazione. Qualsiasi cosa facciamo può essere ripresa da un telefonino, di cui manco ci accorgiamo. Qualsiasi cosa diciamo può essere catturata da un registratore, a nostra insaputa. Qualsiasi immagine o voce ci abbiano carpito, può tranquillamente finire su YouTube, o essere riprodotta, diffusa, venduta nei circuiti più impensabili.
Ma c’è una ragione più profonda che mina la privacy, e quella ragione siamo noi stessi, o meglio i nostri comportamenti quotidiani. Nel giro di pochissimi decenni la nostra privacy ha subito l’onda d’urto del nostro esibizionismo. Proprio mentre da ogni parte veniva proclamato il diritto alla riservatezza, fino al punto da considerare invasiva la pubblicazione dei voti finali sui tabelloni scolastici, l’evoluzione del costume procedeva in direzione diametralmente opposta. Il proprio privato, per quanto insignificante o addirittura riprovevole, viene continuamente e rumorosamente spiattellato all’attenzione di tutti, in treno come in aereo, al bar come al ristorante, in televisione come su Internet. Il sentimento del pudore si è ritirato come un ghiacciaio attaccato dal riscaldamento globale. Il «lei» sta soccombendo al «tu», nonostante le resistenze di alcuni (l’altro giorno alla radio ho sentito Cruciani, l’ottimo conduttore della Zanzara, costretto a chiedere a un telespettatore che gli dava del tu: scusi, lei ed io ci conosciamo?). Insomma, come in una scatola di sardine, siamo tutti vicini a tutti, continuamente invasi e sempre potenzialmente invasori. Il medesimo studente che chiede privacy quando si tratta della sua pagella, non esita a riversare su Internet le immagini a luci rosse di compagne e fidanzate. Il cittadino che non vuole essere spiato o intercettato è il primo a sognare di finire su YouTube.
È vero, con una e-mail possiamo contattare chiunque a costo zero. Ma proprio perché riceviamo decine, centinaia, migliaia di e-mail il nostro tempo è sequestrato da un lavoro opprimente di selezione, autodifesa, smistamento, che sottrae energia a occupazioni ben più degne. Lo spazio della nostra privacy si sta consumando, ma noi non siamo nella condizione di accorgercene. Non solo perché siamo inebriati dalla libertà che la rete ci promette. Ma perché confessarci, esporci, mostrarci ci piace. E quindi confondiamo spazio privato e spazio pubblico. Non ci rendiamo conto che la privacy, il diritto alla privacy, è tante cose insieme. Diritto a non rivelare tutto di noi. Diritto a non far sapere a tutti quel che facciamo sapere a pochi. Ma anche diritto a non sapere i fatti altrui. A non interagire con tutti. A non essere invasi. Insomma, diritto a una distanza che, con il passare del tempo, sta diventando il bene più raro.
1 commento:
Questo articolo merita attenta lettura e riflessioni profonde.
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