martedì 17 marzo 2009

«Randagi, la colpa è di comuni e regioni»


ROMA — «Comuni e Regioni colpevoli di non aver controllato il fenomeno». L'accusa, scagliata dal sottosegretario al Welfare, Francesca Martini, è condivisa da etologi, animalisti e da chi, politicamente, ha posizioni opposte a quelle del governo. «Dal 2001 a oggi in base alla legge per la lotta al randagismo sono stati stanziati 30 milioni di euro. Le pubbliche amministrazioni non li hanno utilizzati, le domande sono rimaste inevase nei nostri uffici perché prive di documentazione», punta l'indice la Martini, intervenuta in modo rigoroso ed efficace nelle politiche per il benessere animale.

Sicilia, Puglia, Calabria, Campania, in parte il Molise (che si sta mettendo in riga), queste le Regioni con la maglia nera, dove la prevenzione dei branchi per strada anche attraverso la sterilizzazione, dei maltrattamenti ai cani e le iniziative per la chiusura dei rifugi lager sono lettera morta. Non è un caso che gli episodi più gravi si siano verificati al Centro Sud. E in Sicilia «ultima nella classifica della ripartizione dei fondi».

Oggi su disposizione del Welfare i Nas saranno a Ragusa per «accertare le responsabilità sul territorio». Con la complicazione della presenza nei branchi di randagi di seconda generazione, nati da animali abbandonati, e quindi senza timore per l'uomo.

È un partito trasversale quello che attribuisce responsabilità ai Comuni. Tra loro c'è anche Annamaria Procacci, ex Verde, consigliere dell'Enpa (ente protezione animali), madrina delle legge del '91 contro il randagismo: «Una legge con molti nemici. Ai sindaci fa più comodo far accalappiare i cani e ammazzarli o farli riprodurre e poi abbandonarli. È urgente un piano straordinario di sterilizzazione. E poi stronchiamo una volta per tutte il fenomeno dei canili lager, fonti di speculazione».

C'è un denominatore unico dietro gli episodi come quello avvenuto a Scicli. I protagonisti sono randagi di seconda e terza generazione. «Non hanno mai conosciuto l'uomo, ne hanno paura, sono irritabili. Non aggrediscono intenzionalmente ma solo perché non hanno dimestichezza con l'altra specie», analizza Enrico Alleva, presidente della società italiana di etologia. E parte da lontano. Quando tutti sapevano trattare il cane, perché animale dell'aia del villaggio: «Oggi è un oggetto. Li prendiamo in casa perché magari li abbiamo visti in braccio a Totti o alla Velina di turno e poi li buttiamo fuori perché non ci piacciono più o magari ce li hanno regalati contro i nostri desideri ». «Bisogna colpire duramente chi li abbandona. Applicare le pene previste dal codice penale», incalza la Martini, ricordando gli unici, pochi dati ufficiali.

Gli ospiti dei rifugi sono circa 150 mila, si stima siano 400 mila quelli senza padrone e neanche un tetto. L'Anci, associazione nazionale comuni italiani, sotto accusa, gioca a rimpiattino. La competenza, fanno notare, è delle Asl. Mentre i Comuni devono occuparsi in base alla legge del '91 dei canili e l'accalappiamento, ad esempio, dovrebbe essere compito delle Regioni.

Margherita De Bac
17 marzo 2009

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