venerdì 13 marzo 2009

Silvio e Dario, l'ora degli insulti


13/3/2009
UGO MAGRI

Nega di essere un dittatore. Addirittura descrive se stesso con le mani legate, perfino Gianni Letta («che è un mostro» di attivismo) ha più poteri di lui... Ogni proposta, è il lamento del premier, deve passare prima dal Consiglio dei ministri, poi dal tavolo di Napolitano, infine dal Parlamento. Così non può andare avanti, scuote la testa Berlusconi, ricevendo dal «Riformista» l’Oscar della politica. Sarebbe ora di arrivare «a decisioni più immediate e a percorsi più brevi», insomma di liberarci da questa democrazia parlamentare, anzi «superparlamentare» (la definisce ironico) colpevole di non essere «adeguata ai tempi e alla concorrenza con gli altri paesi». La rivoluzione berlusconiana non si ferma qui. Se Silvio avesse la bacchetta magica, cambierebbe la geografia politica nazionale lasciando due partiti soltanto, Pdl e Pd. Peccato che il bipartitismo non sia possibile «nell’immediato», sospira, in quanto viene precluso dall’esistenza della Lega.

Per adesso dobbiamo accontentarci del bipolarismo, che comunque già rappresenta «uno snellimento della politica». Il Cavaliere assegna le parti a tutti, avversari compresi. Destino del Pd «è quello di entrare nella casa della socialdemocrazia», del resto «hanno un leader catto-comunista», Franceschini, «che ancora non ho ben chiaro a quali principi e tradizioni si riferisca». Sbagliata è la sua ricetta di tassare una tantum i ricchi per dare ai poveri, «non è con l’elemosina che si risolve il problema». Replica pesante del segretario Pd: «Cattocomunista è una vecchia offesa nei confronti dei cattolici progressisti. Allora lui, tecnicamente, è un clerico-fascista». E nel pomeriggio aveva amminito: «Se Berlusconi stravince alle europee, quello che potrà fare il giorno dopo è inimmaginabile Berlusconi picconatore si guarda bene dal pronunciare la parola presidenzialismo, anzi dice che fu saggio non averlo adottato subito dopo il Ventennio. Ma la Repubblica presidenziale rimane il suo sogno. Ed è curioso come il Cavaliere, che ha in mente una democrazia plebiscitaria, fatichi a tradurre in pratica le sue idee perfino nel partito che si appresta a fondare. Già, perché il parto del Pdl si annuncia come il frutto di mille mediazioni, anzitutto con Fini. Il leader di An non fa mistero (l’ha detto da Vespa) che «con Berlusconi ci sono anche sensibilità diverse, come dimostra la vicenda Englaro».

Non spiace al presidente della Camere di essere etichettato «talvolta come di sinistra», in fondo «dobbiamo abituarci a nuove sintesi». Per quanto rifiuti l’idea di «scontro», Fini è nell’immaginario del centrodestra l’anti-Silvio, colui che prova a imporgli delle regole, fosse anche solo l’elezione al congresso per alzata di mano perchè, certo, quella a voto segreto proposta da Alemanno «sarebbe ridicola. Non mi scandalizzo», chiarisce Fini, «che lo statuto del nuovo partito sia presidenzialista. Ma debbono esserci delle regole». L’esito del braccio di ferro è che le assise del Pdl somiglieranno molto ai soliti congressi, fatta eccezione per una certa coreografia giovanilistica prevista per la giornata inaugurale, il 27 marzo, prima del discorso berlusconiano. Il premier non voleva parate di notabili, invece nel capannone n.8 della Nuova Fiera di Roma vedremo una lunga passerella di alti papaveri. Avrebbe gradito che i ministri tenessero gruppi di lavoro tematici coi 6 mila delegati, invece quasi nessuno rinuncerà al suo discorso politico. Ma il nodo politico vero riguarda l’intervento di Fini.

E’ previsto nella mattina di sabato 28 marzo, e il leader di An anticipa «mi toglierò l’abito istituzionale» per dire pane al pane. Però Berlusconi quell’abito gradirebbe rimetterglielo addosso. Come? Piazzando nella stessa giornata il discorso dell’altra carica Pdl, il presidente del Senato Schifani, figura di gran peso nel nascente partito. An non gradisce però che Fini e Schifani vengano messi sullo stesso piano, Gianfranco deve stare per forza un gradino più su. Forza Italia resiste, cosicché nella riunione di ieri tra La Russa e Verdini non si è cavato il ragno dal buco. Quando al Congresso mancano due settimane appena.

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