lunedì 2 marzo 2009

TONACHE E TOGHE

(Aldo Maturo giovane, n. 10)
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Il ruolo del cappellano delle carceri dopo
la sentenza della Cassazione Penale
Aldo Maturo

La sentenza n. 12 del 2.1.2009 della sesta sezione penale della Corte di Cassazione sul lavoro del cappellano delle carceri non può passare inosservata e deve rappresentare un momento di riflessione soprattutto per gli operatori penitenziari.
La sentenza prende spunto da un fatto di cronaca svoltosi tra il 1988 ed il 1994 in un istituto penitenziario del nord Italia che aveva portato sul banco degli imputati l’ex cappellano di quel carcere accusato di una serie di reati tra cui la concussione. Secondo l’art.317 del codice penale, risponde di tale reato “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o un terzo, denaro o altra utilità”. Il reato è perseguibile d’ufficio e prevede una condanna alla pena della reclusione da 4 a 12 anni.
Nel caso specifico, l’ex cappellano era stato accusato di “concussione nei confronti di alcuni detenuti indotti, con la prospettiva di potere incidere sulla loro posizione, a prestazioni di natura sessuale”. Condannato in Appello a 3 anni e 10 mesi, aveva presentato ricorso in cassazione contro i vari capi di imputazione e, per il reato quivi in esame, era stata eccepita la “mancanza di motivazione circa la ritenuta sussistenza del reato di concussione”. Si diceva che non essendo un pubblico ufficiale non avrebbe potuto essere condannato per concussione, figura prevista soltanto per chi ricopre incarichi pubblici.
La Cassazione ha ritenuto il ricorso non fondato e lo ha rigettato dopo aver analizzato punto per punto i vari gravami proposti dai difensori dell’imputato.
Relativamente alla concussione ha specificato che “ il delitto di concussione è un reato proprio e come tale può essere commesso soltanto da soggetto che rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, sicché assume preliminare rilevanza, nel caso in esame, stabilire se tale qualità, indiscussa nella vigenza del regolamento penitenziario del 1931, possa ritenersi ancora posseduta dal cappellano del carcere dopo la riforma del 1975, che ha profondamente inciso sulla posizione e sulle prerogative del medesimo.
È pur vero che la riforma carceraria del 1975, tradendo in parte i propositi di laicizzazione della vita pubblica, continua a prevedere che il trattamento del condannato e dell’internato sia svolto avvalendosi anche “della religione” (art. 15) e, a tal fine, mantiene - in particolare - il servizio di assistenza cattolica come servizio stabile e interno alla struttura penitenziaria, ma non può sottacersi che, nella prospettiva di affrancarsi - con una qualche timidezza - da tendenze confessionali, ha comunque rimosso il cappellano dal Consiglio di disciplina e dalla quasi totalità delle funzioni amministrative che il regolamento precedente gli conferiva. Il cappellano, infatti, è stato privato anche del potere di controllo sulla corrispondenza, del governo della biblioteca, del potere di redigere i rapporti per l’osservazione del detenuto. I suoi compiti - di norma - sono essenzialmente di natura religiosa e consistono nell’organizzare e presiedere alle pratiche di culto e nell’istruire e assistere i detenuti.”
A questo punto la Cassazione è passata ad esaminare l’attività oggettiva svolta da un cappellano giungendo alla conclusione che di certo egli non riveste la qualità di pubblico ufficiale perché “non svolge una funzione pubblica legislativa o giudiziaria né, dopo il ridimensionamento dei compiti originariamente attribuitigli, una funzione amministrativa, intesa come attività caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.
Di certo, però, secondo la Corte, valutati “ i compiti che la legge attualmente gli assegna e che sono funzionali all’interesse pubblico perseguito dallo Stato nel trattamento delle persone condannate o internate, il cappellano sicuramente svolge un servizio pubblico, la cui natura è conclamata dalla normativa pubblicistica che lo governa, dall’assenza dei poteri tipici della funzione pubblica (poteri decisori, autoritativi o certificativi), dall’attività intellettiva, e non meramente applicativa o esecutiva, che lo caratterizza.”
Nell’enunciare tale principio la Corte è partita dal presupposto che non si poteva non contestualizzare il comportamento del cappellano valutando la posizione da lui rivestita e il rapporto intercorrente con i detenuti, che versavano in una condizione di oggettiva soggezione.
Analizzando l’art.317 del codice penale hanno evidenziato che lo stesso prende in considerazione l’abuso di poteri e l’abuso di qualità. Il primo fa riferimento a condotte e manifestazioni di potere funzionale o di servizio per scopo diverso da quello per il quale si è stati investiti. L’abuso di qualità si riferisce a condotte che consentono una strumentalizzazione della posizione di preminenza ricoperta dal soggetto rispetto al comune cittadino.
Nella fattispecie l’ex cappellano avrebbe sfruttato indebitamente la sua posizione di preminenza nei confronti dei detenuti, ridotti in uno stato di soggezione per paura del “pubblico potere” da lui rivestito, paura determinante ai fini della successiva prestazione indebita (anche sessuale) fatta al fine di mitigare gli effetti della segregazione.
Da qui la condanna e l’enunciazione del nuovo principio secondo cui il cappellano di un carcere svolge un servizio pubblico e quindi ben può rendersi colpevole del reato di concussione.

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