Pensavamo di aver ormai visto di tutto in questa crisi finanziaria ma evidentemente ci eravamo sbagliati. Le Borse mondiali che pendono dalle labbra del primo ministro cinese, l’economia globale che aspetta trepidante la salvezza che arriva da Pechino è uno spettacolo assolutamente inedito e induce a riflettere sulla rapidità e profondità con cui, al soffio della finanza malata, stanno cambiando le cose di questo mondo.
Due giorni fa sui mercati finanziari americani ed europei si era diffusa la speranza che, nel discorso di apertura della seconda sessione dell’XI Congresso Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, il primo ministro Wen Jiabao avrebbe annunciato un incremento del già gigantesco piano cinese di investimenti anticrisi (585 miliardi di dollari su un arco di due anni) per collaborare alla ripresa mondiale.
Questa speranza, unita al lieve miglioramento di un indice congiunturale cinese, aveva contribuito a far ripartire i mercati: Wall Street attendeva impaziente le notizie di Pechino, gli intransigenti sostenitori del capitalismo di mercato si aspettavano la salvezza dagli effetti sull’economia mondiale di un piano «socialista» di investimenti.
Un piano che trae largamente la sua filosofia e le sue origini dal socialismo reale. E per settimane il governo di Pechino era stato «corteggiato» da inviati del presidente Obama; il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, vi si era recata con molti sorrisi e molto pragmatismo (e nessun accenno ad argomenti spinosi come il Tibet e i diritti umani).
Ieri è arrivata la doccia fredda. Wen Jiabao non ha aggiunto neppure un dollaro al suo piano, già assai complesso e di difficile realizzazione, dimostrando così un realismo maggiore di quello manifestato dalle grandi Borse. L’illusione della possibilità che la Cina possa ribaltare la congiuntura mondiale negativa deriva infatti da una scarsa comprensione, in ambienti finanziari, della struttura dell’economia mondiale: questo piano, infatti, potrà semmai aiutare i Paesi africani, asiatici e latino-americani dai quali la Cina compra materie prime in grandi quantità ma avrà comunque effetti secondari per le sofisticate economie occidentali. I cinesi dispongono largamente di tutte le tecnologie necessarie per rinnovare le loro infrastrutture di trasporti e costruire una rete sanitaria di base e dalla loro domanda aggiuntiva non potranno derivare molte grandi commesse per le industrie europee o americane; tanto più che, nel generale clima di protezionismo che oggi si respira, non sarà difficile a Pechino dare la precedenza alle imprese di casa propria.
Dal discorso di Wen Jabao si può concludere che la Cina si ritiene fortunata se riuscirà a salvare se stessa. I numeri cinesi fanno impallidire le brutte cifre delle economie occidentali. Terminato il periodo di vacanze legate al capodanno cinese, in queste settimane milioni di lavoratori stanno tornando dalle loro campagne alle fabbriche, che in parte non riapriranno. Un settimanale economico cinese, il China Economic Weekly, ha stimato in 6,7 milioni i posti di lavoro «ufficiali» già perduti per effetto della crisi e a questi bisogna aggiungere un numero imprecisato ma rilevante di lavori «non ufficiali». Secondo l’Accademia Cinese di Scienze Sociali, per dare occupazione a tutti quelli che la stanno cercando la Cina dovrebbe creare nel 2009 ben 33 milioni di nuovi posti di lavoro, una parte notevole dei quali dovrebbe andare a giovani in cerca del primo impiego e tra questi ci sono non soltanto gli operai non specializzati, ma diversi milioni di laureati e diplomati.
Sono queste le premesse per un piano che prevede una crescita dell’8 per cento nel 2009 che a noi sembra straordinaria (l’Italia l’ha a malapena realizzata in un decennio) ma che rappresenta una netta flessione nella velocità di espansione degli ultimi anni. L’obiettivo dell’8 per cento di crescita è considerato il minimo indispensabile per mantenere il «patto sociale» non scritto che tiene insieme la Cina; equivale, in questo senso, all’ancora imprecisato obiettivo italiano di decrescita (-2 per cento?). È pertanto curioso ma comprensibile che Wen Jabao e Giulio Tremonti abbiano usato ieri quasi gli stessi termini per parlare delle prospettive economiche del 2009: entrambi hanno dichiarato che saranno più difficili di quelle del 2008.
Proprio per questa difficoltà, il governo cinese prevede con molta calma un periodo di agitazioni e di forti tensioni sociali, che peraltro già hanno cominciato a manifestarsi. E non senza un brivido nella schiena si è potuta leggere su La Stampa di ieri una corrispondenza da Londra di Francesca Paci in cui si dà conto della previsione di un’estate densa di disordini e sommosse nelle città britanniche, che preoccupa non solo la polizia ma anche l’esercito.
La morale di tutto ciò è purtroppo una sola: non ci sono né soluzioni facili, né tempi brevi, né ipotetici aiuti cinesi né, purtroppo, idee chiare. Il primo ministro cinese, il presidente americano, i ministri europei dell’Economia, i banchieri centrali che ieri hanno ancora una volta tagliato il costo del denaro (una misura ritenuta indispensabile ma quasi certamente inefficace nel breve periodo) guardano tutti impotenti le economie che rallentano e le Borse che calano. La quotazione di Citigroup, l’orgogliosa nave ammiraglia del capitalismo finanziario degli Stati Uniti, è scesa ieri sotto il livello di un dollaro: due anni fa le stesse azioni si cambiavano a 50 dollari, un anno fa a 25 dollari. In queste semplici cifre sono racchiuse le dimensioni del problema che stiamo vivendo.
mario.deaglio@unito.it
Due giorni fa sui mercati finanziari americani ed europei si era diffusa la speranza che, nel discorso di apertura della seconda sessione dell’XI Congresso Nazionale del Popolo, il parlamento cinese, il primo ministro Wen Jiabao avrebbe annunciato un incremento del già gigantesco piano cinese di investimenti anticrisi (585 miliardi di dollari su un arco di due anni) per collaborare alla ripresa mondiale.
Questa speranza, unita al lieve miglioramento di un indice congiunturale cinese, aveva contribuito a far ripartire i mercati: Wall Street attendeva impaziente le notizie di Pechino, gli intransigenti sostenitori del capitalismo di mercato si aspettavano la salvezza dagli effetti sull’economia mondiale di un piano «socialista» di investimenti.
Un piano che trae largamente la sua filosofia e le sue origini dal socialismo reale. E per settimane il governo di Pechino era stato «corteggiato» da inviati del presidente Obama; il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, vi si era recata con molti sorrisi e molto pragmatismo (e nessun accenno ad argomenti spinosi come il Tibet e i diritti umani).
Ieri è arrivata la doccia fredda. Wen Jiabao non ha aggiunto neppure un dollaro al suo piano, già assai complesso e di difficile realizzazione, dimostrando così un realismo maggiore di quello manifestato dalle grandi Borse. L’illusione della possibilità che la Cina possa ribaltare la congiuntura mondiale negativa deriva infatti da una scarsa comprensione, in ambienti finanziari, della struttura dell’economia mondiale: questo piano, infatti, potrà semmai aiutare i Paesi africani, asiatici e latino-americani dai quali la Cina compra materie prime in grandi quantità ma avrà comunque effetti secondari per le sofisticate economie occidentali. I cinesi dispongono largamente di tutte le tecnologie necessarie per rinnovare le loro infrastrutture di trasporti e costruire una rete sanitaria di base e dalla loro domanda aggiuntiva non potranno derivare molte grandi commesse per le industrie europee o americane; tanto più che, nel generale clima di protezionismo che oggi si respira, non sarà difficile a Pechino dare la precedenza alle imprese di casa propria.
Dal discorso di Wen Jabao si può concludere che la Cina si ritiene fortunata se riuscirà a salvare se stessa. I numeri cinesi fanno impallidire le brutte cifre delle economie occidentali. Terminato il periodo di vacanze legate al capodanno cinese, in queste settimane milioni di lavoratori stanno tornando dalle loro campagne alle fabbriche, che in parte non riapriranno. Un settimanale economico cinese, il China Economic Weekly, ha stimato in 6,7 milioni i posti di lavoro «ufficiali» già perduti per effetto della crisi e a questi bisogna aggiungere un numero imprecisato ma rilevante di lavori «non ufficiali». Secondo l’Accademia Cinese di Scienze Sociali, per dare occupazione a tutti quelli che la stanno cercando la Cina dovrebbe creare nel 2009 ben 33 milioni di nuovi posti di lavoro, una parte notevole dei quali dovrebbe andare a giovani in cerca del primo impiego e tra questi ci sono non soltanto gli operai non specializzati, ma diversi milioni di laureati e diplomati.
Sono queste le premesse per un piano che prevede una crescita dell’8 per cento nel 2009 che a noi sembra straordinaria (l’Italia l’ha a malapena realizzata in un decennio) ma che rappresenta una netta flessione nella velocità di espansione degli ultimi anni. L’obiettivo dell’8 per cento di crescita è considerato il minimo indispensabile per mantenere il «patto sociale» non scritto che tiene insieme la Cina; equivale, in questo senso, all’ancora imprecisato obiettivo italiano di decrescita (-2 per cento?). È pertanto curioso ma comprensibile che Wen Jabao e Giulio Tremonti abbiano usato ieri quasi gli stessi termini per parlare delle prospettive economiche del 2009: entrambi hanno dichiarato che saranno più difficili di quelle del 2008.
Proprio per questa difficoltà, il governo cinese prevede con molta calma un periodo di agitazioni e di forti tensioni sociali, che peraltro già hanno cominciato a manifestarsi. E non senza un brivido nella schiena si è potuta leggere su La Stampa di ieri una corrispondenza da Londra di Francesca Paci in cui si dà conto della previsione di un’estate densa di disordini e sommosse nelle città britanniche, che preoccupa non solo la polizia ma anche l’esercito.
La morale di tutto ciò è purtroppo una sola: non ci sono né soluzioni facili, né tempi brevi, né ipotetici aiuti cinesi né, purtroppo, idee chiare. Il primo ministro cinese, il presidente americano, i ministri europei dell’Economia, i banchieri centrali che ieri hanno ancora una volta tagliato il costo del denaro (una misura ritenuta indispensabile ma quasi certamente inefficace nel breve periodo) guardano tutti impotenti le economie che rallentano e le Borse che calano. La quotazione di Citigroup, l’orgogliosa nave ammiraglia del capitalismo finanziario degli Stati Uniti, è scesa ieri sotto il livello di un dollaro: due anni fa le stesse azioni si cambiavano a 50 dollari, un anno fa a 25 dollari. In queste semplici cifre sono racchiuse le dimensioni del problema che stiamo vivendo.
mario.deaglio@unito.it
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