La febbre suina non rappresenta solo una grave emergenza sanitaria; si tratta di un evento totalmente imprevisto, un «fattore S» (dove S può stare per «suini», «sanità» e «sorpresa») comparso d’improvviso con il quale occorre fare i conti, oltre che sotto il profilo medico anche sotto quello delle già incerte prospettive di ripresa economica mondiale. Lo si è visto nella giornata di ieri quando le prime notizie sulla febbre suina hanno immediatamente determinato su tutte le Borse del mondo forti perdite per i titoli legati ai viaggi e al turismo mentre le quotazioni delle imprese farmaceutiche, soprattutto quelle che producono vaccini, sono fortemente salite, una reazione cinica ma purtroppo realistica dei mercati tesi a individuare subito chi guadagna e chi perde di fronte a una situazione nuova.
Crisi sanitaria e crisi finanziaria hanno molti aspetti in comune.
Il primo è appunto la mancanza di un rimedio già pronto: niente vaccini contro la febbre, nessuna ricetta valida per bloccare i danni legati all’insuccesso dei mutui subprime. Il secondo è la rapida mutazione della causa iniziale: ci hanno già informati che il vero pericolo, tutto sommato, non è il virus suino nella sua forma attuale ma la elevata probabilità di mutazioni più gravi e aggressive. Partendo dal solo settore delle abitazioni «povere» degli Stati Uniti, il virus finanziario dei mutui subprime ha subito in due anni diverse mutazioni, estendendosi all’intera edilizia abitativa di quel Paese; di lì si è insinuato nei bilanci delle banche che avevano prestato soldi su garanzie immobiliari e ha provocato enormi perdite contabili e indotto negli operatori finanziari il sospetto reciproco. Si è così arrivati nella primavera-autunno del 2008 a una vera e propria paralisi del mercato interbancario con la necessità di imponenti interventi pubblici; e infine il virus ha superato, con una violenza e una rapidità vista poche altre volte nella storia, la barriera che lo separava dall’economia reale, determinando le attuali, massicce cadute produttive e occupazionali.
Di fronte a questa incredibile avanzata, i regolatori dell’economia non hanno saputo bene che cosa fare e hanno ripetutamente, nel corso del 2007 e del 2008, trasmesso messaggi di fiducia, come se i problemi fossero in via di soluzione, che si sono rivelati gravemente errati. Auguriamoci che i responsabili della sanità mondiale riescano a prendere in mano la situazione, dal momento che dispongono di procedure consolidate e hanno esperienza di altre crisi simili, come quella, tutto sommato assai ben gestita, dell’influenza aviaria. Sul loro successo, l’informazione giocherà un ruolo importante e difficile: come per le vicende delle Borse, anche per le epidemie tra l’informazione corretta e l’allarmismo la distinzione può essere molto tenue.
Al livello sanitario mondiale le procedure sono consolidate alla luce di precedenti epidemie e pandemie, ma differenze apparentemente piccole nell’atteggiamento concreto dei singoli governi possono provocare pesanti ripercussioni. Il presidente Obama ha tenuto a dichiarare ieri che la febbre suina è «motivo di preoccupazione» e non già «motivo di allarme», una distinzione che può sembrare speciosa; ha però ricordato di aver dichiarato uno «stato di emergenza» relativo alla salute pubblica, sia pure a titolo precauzionale. Sembra un giocare con le parole non troppo dissimile da quello del suo predecessore che si rifiutava di usare la temutissima parola «recessione» e preferiva il meno allarmistico «inversione di tendenza» (downturn).
Da oltre Atlantico arriva quindi una cautissima tendenza a ridimensionare, ma da Bruxelles la cipriota Androulla Vassiliou, commissario europeo alla Sanità, non ha fatto tanti complimenti e ha consigliato agli europei di evitare qualunque viaggio non essenziale negli Stati Uniti e in Messico, un invito di gravità eccezionale che lascerebbe supporre la presenza di elementi di preoccupazione non ancora resi pubblici. Da Bruxelles si è poi ristretto il consiglio alle aree in cui si sono registrati casi del morbo, che comprendono però la città di New York, dove in un liceo almeno otto studenti sono risultati infetti. Un alto funzionario della Sanità americana ha però definito «ingiustificato» questo consiglio dato agli europei.
Dietro a queste differenze di opinioni c’è forse il maggior grado di preparazione della sanità pubblica europea, con un’ampia serie di reti di sicurezza mentre questo settore non ha certo rappresentato in anni recenti una priorità per gli Stati Uniti, dove non solo si è sostanzialmente abolita l’obbligatorietà dei vaccini, ma si è giunti, in taluni casi, a negarne la gratuità agli immigrati irregolari e ai loro figli in nome del mercato, della libertà e della responsabilità individuale. Nella vecchia Europa, il mercato fortunatamente non è giunto a simili estremi e l’«ombrello» pubblico dovrebbe risultare più efficiente.
In definitiva, in un mondo in cui si pretende giustamente la «trasparenza finanziaria» ci starebbe bene anche un poco di «trasparenza sanitaria»; il cittadino ha l’impressione che, nella sanità come nella finanza, qualcosa gli possa essere celato. E non è con le reticenze che si esce dalle crisi né di un tipo né dell’altro
mario.deaglio@unito.it
Crisi sanitaria e crisi finanziaria hanno molti aspetti in comune.
Il primo è appunto la mancanza di un rimedio già pronto: niente vaccini contro la febbre, nessuna ricetta valida per bloccare i danni legati all’insuccesso dei mutui subprime. Il secondo è la rapida mutazione della causa iniziale: ci hanno già informati che il vero pericolo, tutto sommato, non è il virus suino nella sua forma attuale ma la elevata probabilità di mutazioni più gravi e aggressive. Partendo dal solo settore delle abitazioni «povere» degli Stati Uniti, il virus finanziario dei mutui subprime ha subito in due anni diverse mutazioni, estendendosi all’intera edilizia abitativa di quel Paese; di lì si è insinuato nei bilanci delle banche che avevano prestato soldi su garanzie immobiliari e ha provocato enormi perdite contabili e indotto negli operatori finanziari il sospetto reciproco. Si è così arrivati nella primavera-autunno del 2008 a una vera e propria paralisi del mercato interbancario con la necessità di imponenti interventi pubblici; e infine il virus ha superato, con una violenza e una rapidità vista poche altre volte nella storia, la barriera che lo separava dall’economia reale, determinando le attuali, massicce cadute produttive e occupazionali.
Di fronte a questa incredibile avanzata, i regolatori dell’economia non hanno saputo bene che cosa fare e hanno ripetutamente, nel corso del 2007 e del 2008, trasmesso messaggi di fiducia, come se i problemi fossero in via di soluzione, che si sono rivelati gravemente errati. Auguriamoci che i responsabili della sanità mondiale riescano a prendere in mano la situazione, dal momento che dispongono di procedure consolidate e hanno esperienza di altre crisi simili, come quella, tutto sommato assai ben gestita, dell’influenza aviaria. Sul loro successo, l’informazione giocherà un ruolo importante e difficile: come per le vicende delle Borse, anche per le epidemie tra l’informazione corretta e l’allarmismo la distinzione può essere molto tenue.
Al livello sanitario mondiale le procedure sono consolidate alla luce di precedenti epidemie e pandemie, ma differenze apparentemente piccole nell’atteggiamento concreto dei singoli governi possono provocare pesanti ripercussioni. Il presidente Obama ha tenuto a dichiarare ieri che la febbre suina è «motivo di preoccupazione» e non già «motivo di allarme», una distinzione che può sembrare speciosa; ha però ricordato di aver dichiarato uno «stato di emergenza» relativo alla salute pubblica, sia pure a titolo precauzionale. Sembra un giocare con le parole non troppo dissimile da quello del suo predecessore che si rifiutava di usare la temutissima parola «recessione» e preferiva il meno allarmistico «inversione di tendenza» (downturn).
Da oltre Atlantico arriva quindi una cautissima tendenza a ridimensionare, ma da Bruxelles la cipriota Androulla Vassiliou, commissario europeo alla Sanità, non ha fatto tanti complimenti e ha consigliato agli europei di evitare qualunque viaggio non essenziale negli Stati Uniti e in Messico, un invito di gravità eccezionale che lascerebbe supporre la presenza di elementi di preoccupazione non ancora resi pubblici. Da Bruxelles si è poi ristretto il consiglio alle aree in cui si sono registrati casi del morbo, che comprendono però la città di New York, dove in un liceo almeno otto studenti sono risultati infetti. Un alto funzionario della Sanità americana ha però definito «ingiustificato» questo consiglio dato agli europei.
Dietro a queste differenze di opinioni c’è forse il maggior grado di preparazione della sanità pubblica europea, con un’ampia serie di reti di sicurezza mentre questo settore non ha certo rappresentato in anni recenti una priorità per gli Stati Uniti, dove non solo si è sostanzialmente abolita l’obbligatorietà dei vaccini, ma si è giunti, in taluni casi, a negarne la gratuità agli immigrati irregolari e ai loro figli in nome del mercato, della libertà e della responsabilità individuale. Nella vecchia Europa, il mercato fortunatamente non è giunto a simili estremi e l’«ombrello» pubblico dovrebbe risultare più efficiente.
In definitiva, in un mondo in cui si pretende giustamente la «trasparenza finanziaria» ci starebbe bene anche un poco di «trasparenza sanitaria»; il cittadino ha l’impressione che, nella sanità come nella finanza, qualcosa gli possa essere celato. E non è con le reticenze che si esce dalle crisi né di un tipo né dell’altro
mario.deaglio@unito.it
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