martedì 28 aprile 2009

Lombroso, il catalogo delle assurdità


Illusioni, pasticci e paradossi dello scienziato che aprì le porte al razzismo. Una celebrità dell’800


Cosa c’entrano i cammelli coi camalli? Niente, si dirà
. Eppu­re, partendo anche dall’asso­nanza dei nomi, che verrebbe­ro dall’arabo hamal, Cesare Lombroso si spinse nel 1891 a teorizzare che tra gli animali e gli scaricatori di porto ci fos­se una sorta di parentela dovuta alla gibbosità. Al punto che, con Filippo Cougnet, firmò un saggio dal titolo irre­sistibile: Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentot­te, cammelli e zebù.

La folgorante idea, scrive Luigi Guarnieri nel suo irridente L’atlante crimi­nale. Vita scriteriata di Cesare Lombro­so (Bur), gli viene «esaminando un pa­ziente, di professione brentatore, il qua­le ha sulle spalle, nel punto in cui ap­poggia il carico, una specie di cuscinet­to adiposo. Vuoi vedere, almanacca prontamente Lombroso, che la gobba dei cammelli e dei dromedari ha la stes­sa origine del cuscinetto del brentato­re? Subito esamina tutti i facchini di To­rino e scrive a legioni di veterinari per­ché studino a fondo gli animali da so­ma, in special modo gli asini. Non pago dell’imponente massa di dati raccolti, Lombroso indaga con grande scrupolo i misteri del cuscinetto adiposo delle Ottentotte», cioè le donne del popolo africano dei Khoikhoi.

C’è da riderne, adesso. Come c’è da sorridere a rileggere gran parte del­l’opera dell’antropologo veronese. Ba­sti ricordare, tra gli altri, lo studio su La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, dove sosteneva, in base all’esame del­le foto degli scheda­ri del capo della po­lizia parigina, Go­ron (il quale scoprì poi che per sbaglio aveva mandato al nostro le immagini di bottegaie in lista per una licenza...), che «le prostitute, come i delinquenti, presentano caratte­ri distintivi fisici, mentali e congeniti» e hanno l’alluce «prensile». O quello su Il ciclismo nel delitto, pubblicato su «Nuova Antologia», nel quale teorizza­va che «la passione del pedalare trasci­na alla truffa, al furto, alla grassazio­ne ».

Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità. A partire da certi titoli: «Sul vermis ipertrofico», «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Fenomeni mediani­ci in una casa di Torino», «Sulla cortez­za dell’alluce negli epilettici e negli idio­ti », «Rapina di un tenente dipsoma­ne », «Il vestito dell’uomo preistorico», «Il cervello del brigante Tiburzio», «Perché i preti si vestono da donna»...

Nulla è più facile, un secolo dopo la sua morte avvenuta nel 1909, che ridur­re l’antropologo, criminologo e giuri­sta veronese a una macchietta. Un ciar­latano. Eppure, come scrisse Giorgio Ie­ranò, andrebbe riscoperta «la comples­sità di una figura che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno nella cultura italiana». Se non altro perché «c’era del metodo nella follia di Lombroso. C’era l’illusione di poter offrire di ogni aspet­to, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convin­zione di poter misurare quantitativa­mente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza».

Certo, spiega l’antropologo Duccio Canestrini, che insegna a Trento e a Lucca e per celebrare il centenario del­la scomparsa ha allestito una conferen­za- spettacolo ( Lombroso illuminato. Delinquenti si nasce o si diventa?) al de­butto domani sera a Torino al Circolo dei lettori, era un uomo pieno di con­traddizioni: «Socialista, criminalizza di fatto i miserabili. Ebreo, pone le basi del razzismo scientifico. Razionalista, partecipa a sedute spiritiche nel corso delle quali una medium gli fa incontra­re persino la mamma defunta e spiega il paranormale con l’esistenza di una 'quarta dimensione'. Le sue teorie, affa­scinanti e spesso assurde, ebbero un successo internazionale, condizionan­do sia la giurisprudenza, sia la frenolo­gia ».

Con Verdi e Garibaldi, fu probabil­mente uno degli italiani più famosi del XIX secolo. Le sue opere erano tradotte e pubblicate in tutto il mondo, dal­l’America alla Russia, dall’Argentina (dove lo studioso lombrosiano Corne­lio Moyano Gacitúa arrivò a rovesciare certe analisi contro i nostri immigrati: «La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italia­ni c’è il residuo della sua alta criminali­tà di sangue») fino al Giappone. I con­vegni scientifici di tutto il pianeta se lo contendevano. Vittorio Emanuele III sa­lutava in lui «l’onore d’Italia». I sociali­sti lo omaggiavano regalandogli un bu­sto di Caligola. Émile Zola lo elogiava come «un grande e potente ingegno». Il governo francese gli consegnava la Legion d’Onore. Gli scienziati, i medici e i prefetti si facevano in quattro per ar­ricchire la sua stupefacente collezione di crani, cervelli, maschere funerarie, foto segnaletiche, dettagli di tatuaggi di criminali e prostitute e deviati di ogni genere, oggi raccolti al «Museo Lombroso» di Torino. Lo scrittore Bram Stoker lo tirava in ballo scrivendo Dracula. Il filosofo Hippolyte Adolphe Taine gli si inchinava: «Il vostro meto­do è l’unico che possa portare a nozio­ni precise e a conclusioni esatte».

E questo cercava Cesare Lombroso, misurando crani e confrontando orec­chie e calcolando pelosità in un avvitar­si di definizioni «scientifiche» avventa­te: l’esattezza. Capire il perché delle co­se. Così da migliorare la società. «Il tra­guardo che spero di raggiungere com­pletando le mie ricerche», dice in un’edizione de L’uomo delinquente del 1876, «è quello di dare ai giudici e ai pe­riti legali il mezzo per prevenire i delit­ti, individuando i potenziali soggetti a rischio e le circostanze che ne scatena­no l’animosità. Accertando rigorosa­mente fatti determinati, senza azzarda­re su di essi dei sentimenti personali che sarebbero ridicoli» .

Il guaio è che proprio quel «rigore scientifico» appare oggi sospeso tra il ridicolo e lo spaventoso. Il consiglio da­to al Pellegrosario di Mogliano Veneto di curare la pellagra con «piccole dosi di arsenico». Il marchio sugli africani: «Del tetro colore della pelle, il povero Negro ne va tinto più o meno in tutta la superficie, e in certe provincie, anche interne, del corpo, come il cervello e il velo pendulo». Il giudizio sulla donna che tende «non tanto a distruggere il nemico quanto a infliggergli il massi­mo dolore, a martoriarlo a sorso a sor­so e a paralizzarlo con la sofferenza». La ricerca «sul cretinismo in Lombar­dia » dove descrive una «nuova specie di uomini bruti che barbugliano, gru­gniscono, s’accosciano su immondo strame gettato sul terreno». Le parole sull’anarchico Ravachol: «Ciò che ci col­pisce nella fisionomia è la brutalità. La faccia si distingue per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso devia­to molto verso destra, le orecchie ad an­sa. ». La teoria che «il mancinismo e l’ambidestrismo sensorii sono un po’ piu frequenti nei pazzi».

Un disastro, col senno di poi. Gravi­do di conseguenze pesanti. Eppure a quell’uomo incapace di trovare il ban­dolo della matassa e liquidato da Lev Nikolaevic Tolstoj (che in base alla brut­tezza lui aveva classificato «di aspetto cretinoso o degenerato») come un «vecchietto ingenuo e limitato», una cosa gliela dobbiamo riconoscere. Non si stancò mai di cercare. A che prezzo, però...

Gian Antonio Stella
28 aprile 2009

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