venerdì 14 agosto 2009

IL MALE OSCURO - LE INGIUSTIZIE SUBITE- CHI NON CE' PIU'

Luigi Morsello

CINQUE



I passaggi successivi furono il trasferimento da Lonate Pozzolo all’Ispettorato Distrettuale di Firenze.
L’ispettore distrettuale era il dr. Guglielmo Nespoli, originario di Acerra, preparato giuridicamente, incline al risparmio delle energie, che mi inviava in missione a destra e a manca. Quando si verificò l’evasione di Gianni Guido da San Gimignano cercò di farmi capire che la situazione era estremamente pericolosa, ma io non lo capii anche perché non potette essere molto esplicito, ed io compii il ‘bel gesto’.
Il vicario era il dr. Alfredo Gambardella.
Ero stanco di trasferimenti, di vessazioni, volevo restarci a Firenze, in sottordine, ero convinto di non avere la stoffa del ‘capo’. Oggi so di non avere posseduto i requisiti né per fare carriera (non è mai stato il mio obiettivo) né per sopravvivere. Devo aggiungere che fino a tutto l’anno 1980 e in vita del cons. Girolamo Minervini non avvertivo la necessità di essere particolarmente attrezzato, anzi mi ero convinto di essere considerato meno bravo di quanto mi si lasciava intendere. Ricordo che il dr. Giuseppe Lattanzio, già direttore delle carceri fiorentine e poi del carcere di Siena, quando andai a trovarlo a Siena mi disse che io avrei fatto carriera. La medesima cosa pensava di me in cons. Minervini.
Dal 1981 il mondo penitenziario non fu più lo stesso, almeno per me.
“Conditio sine qua non” per restare in servizio all’ispettorato distrettuale di Firenze era di avere in concessione a titolo oneroso di un alloggio demaniale fra quelli liberi, ve n’erano due a Sollicciano Nuovo Complesso, dove le carceri fiorentine erano state trasferite.
Il mio amico rag. Luigi Parisi (quel funzionario che, lo ricordo, mi insegnò a Firenze i rudimenti della contabilità carceraria, che venne in mio soccorso a San Gimignano, privo di ragioniere, che mi accompagnò nelle missioni a Gorgona e Pianosa) mi ospitò a casa sua per tre mesi, quanti furono necessari per appurare che il cons. Giuseppe Falcone – direttore dell’Ufficio del personale civile nonché braccio destro del neo direttore generale Niccolò Amato, col quale qualche anno dopo si consumò la rottura per cui Falcone andò alla Procura Generale della Cassazione – non aveva nessuna intenzione di farmi ottenere l’alloggio demaniale di servizio a titolo oneroso, nonostante i buoni auspici del dr. Nespoli, il quale mi disse di rassegnarmi e mi riferì testualmente il contenuto di una telefonata fatta a Falcone in mia presenza. Mi disse: “Morse’, mi ha detto di andare ad abitare una delle ville che tu hai a San Gimignano”.
Figuriamoci, abitavo e ho sempre usato alloggi demaniali si servizio, il primo a Firenze - vecchi istituti - in via dell’Agnolo n.1, quand’ero vice direttore.
La mia famiglia era rimasta a Lonate Pozzolo per via delle scuole dei figli, ogni settimana io vi facevo ritorno.
Quella volta lì andai in comune a Lonate Pozzolo e feci una autocertificazione resa davanti all’ufficiale di stato civile, con la quale io negavo di possedere né a mio nome né di un qualsiasi mio familiare o prestanome, autocertificazione che faceva fede fino a querela di falso e tutelata da sanzioni penali per le dichiarazioni mendaci. La portai al dr. Nespoli perché la trasmettesse al cons. Falcone.
Ma fu tutto inutile, per cui mi dovetti risolvere a chiedergli udienza a Roma. Venne con me anche mia moglie che non voleva credere che tante vessazioni non fossero colpa mia. Quando finalmente mi ricevette entrò anche mia moglie ma Falcone la mise alla porta, esattamente come io avevo previsto che avrebbe fatto: ormai era conosciuto, era un pugliese di Taranto dai modi ‘ruvidi’, come potette constatare anni dopo il dr. Francesco Di Maggio (P.M. a Milano, che lo sostituì nell’incarico di vice direttore generale vicario anni dopo ed alla cui morte Falcone tornò nuovamente nello stesso incarico con il direttore generale Michele Coiro).
Fu un’umiliazione angosciosa, mia moglie, allibita e annichilita, uscì fuori.
Io, che ero sempre armato, avevo la Walter P. 38, provai fortissimo l’impulso di sparargli, furono una diecina di secondi, ma decisi, ‘coraggiosamente’, di non farlo.
Non credo se ne sia reso conto.
Ero andato per chiedere una nuova sede, con alloggio demaniale di servizio gratuito, la ottenni: l’Istituto Penale per Minorenni di Eboli.
Correva l’anno 1988, mi fece fare ‘a vista’ e a mano il gradimento della nuova sede e mi trasferì lì.
Anche questa volta ero convinto che non mi sarei più mosso, anche perché i minorenni dipendevano da una direzione generale autonoma, eccetto che per l’assegnazione del personale.
Eboli è dove è nata mia moglie, dove io sono vissuto (mio padre era stato un agente di custodia minorile, prima a Catanzaro, poi ad Avigliano dove io sono nato, poi a Eboli, dove fu collocato in pensione di vecchiaia da educatore principale), uscendone per assumere servizio a Firenze nel 1967.
Ero come tornato a casa mia !
Ma era un frutto avvelenato e Falcone lo sapeva !
Il 1988 fu l’anno in cui venne approvato il nuovo codice di procedura penale, che sarebbe entrato in vigore un anno dopo, la Giustizia Minorile in conseguenza della particolare mitezza del codice di rito per i minorenni nuovo di zecca, aveva preparato un programma di riduzione degli istituti penali per minorenni, Eboli vi era compresa. Infatti, nel 1989 fu soppressa ed io rimasi ‘con le pive nel sacco’ !
La mia fortuna fu che a capo dell’Ufficio del personale era sopravvenuto il cons. Ferraro, un galantuomo che, per ciò stesso, non vi restò a lungo, il quale, liberatosi la sede del carcere di Pavia, mi vi trasferì.
C’era una ragione specifica per ottenere quella sede di servizio e non un’altra qualsiasi libera: i miei primi due figli erano rimasti in Lombardia, da Lonate Pozzolo a Pavia presso parenti, per ragioni di studio (ottime scuole).
Il vecchio carcere era addossato al Tribunale, in centro città, aveva solo l’alloggio demaniale di servizio per il comandante di reparto, che però non l’aveva occupato, si chiamava Piras. Era sardo e proveniva da Voghera, dove abitava in casa di proprietà, ed era il comandante dell’episodio del ‘suicidio’ di Michele Sindona. Era gravemente malato di cuore, ma non lo sapeva, quando lo scoprì entrò in malattia, durante la quale morì.
Occupai il suo alloggio di servizio, che non era granché ma era sempre meglio degli affitti stratosferici di quella città.
Il nuovo carcere di Pavia, anch’esso costruito da una società dell’arch. Bruno De Mico, stava per essere ultimato. Le cose erano andate per le lunghe perché il carcere fu costruito in una risaia alla periferia di Pavia, tutt’intorno c’erano risaie (oggi non più), non era stata fatta l’analisi sedimentologica e stratigrafica del terreno, per primo fu costruito il muro di cinta, poi, nel corso dei lavori, ci si accorse che stava sprofondando nel terreno (in effetti sprofondò tutto e fu necessario costruirne uno nuovo sull’esistente), dopo avere risanato il terreno, isolandolo dalla falda acquifera superficiale dovuta alle risaie (in pratica, fu aspirata tutta l’acqua mediante potenti idrovore).
Anche questo, come Busto Arsizio, era stato costruito come carcere di “massima sicurezza” (chiamato impropriamente “supercarcere”), per 150 posti ‘singoli, che all’atto dell’apertura furono raddoppiati coi famigerati letti a castello, che erano fissi come a Busto Arsizio. Poi io vi feci realizzare altri 100 posti riutilizzando settori costruiti a casaccio per svolgervi attività che forse nemmeno gli U.S.A. del tempo avevano la forza economica di svolgere.
Complessivamente oggi la casa circondariale di Pavia ha 400 posti letto e la sezione di semilibertà.
Il provveditore regionale era il dr. Giuseppe Cangemi.
Quando il carcere fu pronto per la consegna, avvenuta mediante verbale di consegna provvisorio, fummo tutti i direttori interessati chiamati a Roma a rappresentare le nostre necessità per provvedere all’arredamento della nuova struttura.
Vigeva già l’art. 37 della legge 395/1990, che recita:
“Competenza del funzionario delegato.
1. A parziale modifica del primo comma dell'articolo 3 della legge 21 dicembre 1977, n. 967, e dell'articolo 1, comma 3, del decreto-legge 3 gennaio 1987, n. 1, convertito dalla legge 6 marzo 1987, n. 64, il limite di spesa previsto per il funzionario delegato è elevato a lire 200 milioni.”
Si tratta del limite di spesa in economia diretta, cioè delle spese dirette che il direttore del carcere-funzionario delegato può fare, le altre di importo superiore debbono essere sostenute con gli strumenti dell’appalto-concorso o della licitazione privata.
Quando a Roma ci fu chiesto di dire di quanti soldi avevamo bisogno io non ebbi problemi, sapevo di poter spendere 200 milioni di lire, I.V.A. compresa, chiesi e ottenni tutti i fondi richiesti.
Ciò mi consentì di arredare il carcere in ogni sua necessità, ivi compresi gli uffici e servizi e la caserma agenti. Ma mi obbligò anche a un enorme superlavoro, ormai da sempre facevo tutto da me.
Come si dice: “Chi fa per sé fra per tre” !
Visionavo personalmente ogni più piccolo dettaglio controllavo le forniture, appaltai i servizi. Gli armadi, i comodini della caserma agenti credo siano i soli forniti in materiale plastico antigraffio di colore celeste, le ante riquadrate in bianco. Tentai anche, senza riuscirci, di acquistare i televisori, visto che ogni stanza aveva una presa televisiva. Non riuscii nemmeno a far applicare le zanzariere alle finestre, assolutamente necessarie allora, visto che si stava in mezzo alle risaie. Due decisioni assolutamente irrazionali, la seconda portò alla conseguenza che gli agenti per difendersi dalle zanzare, si arrangiarono, con un indubbio effetto folcloristico.
Erano passati cinque anni dal secondo episodio di depressione.
Il male oscuro si ripresentò all’improvviso, ancora una vota e proprio il giorno in cui si effettuava il trasferimento dei detenuti dal vecchio al nuovo carcere.
D’improvviso fui colto da panico, immotivato, non c’era nulla che lo giustificasse, però la sintomatologia depressiva si presentò di nuovo in tutta la sua gravità: paralisi totale delle mie facoltà mentali.
Mi rivolsi al servizio di igiene mentale dell’ASL di Lodi, in particolare allo psichiatra che prestava servizio anche in carcere, ma senza risultati: i soliti palliativi.
In questo stato mentale incassai un durissimo colpo dalla strage di Capaci. Ammiravo moltissimo Giovanni Falcone, l’ho anche fugacemente conosciuto quand’era direttore generale a Roma. Ricordo l’iperattivismo mentre gestiva un procedimento disciplinare in cui io difendevo un funzionario mio amico, sopratutto col P.C. installato nel suo ufficio, che usava ripetutamente, probabilmente aggiornando dei dati ma mano che gli pervenivano. Fu ucciso il 23 maggio 1992.
Il trasloco dei detenuti era avvenuto a febbraio di quell’anno.
Poi venne ucciso anche Paolo Borsellino, la strage di via D’Amelio, il 3 settembre 1992.
Ero personalmente sgomento, lo Stato che non sapeva (oggi mi domando se lo voleva) difendere i suoi uomini migliori.
La depressione si aggravò. A Lonate Pozzolo avevo fatto le ‘prove generali’, a Pavia tradussi in pratica.
Mi sparai al cuore, di tardo pomeriggio, a casa mia. Il proiettile penetrò nella cassa toracica, forò il ventricolo sinistro, marginalmente, forò l’addome, slabbrò il lato interno del fegato, forò nuovamente il plesso solare e si incastonò nel lato posteriore sinistro, quasi a fior di pelle, senza uscire.
Quel millimetro di differenza mi impedì di morire.
Secondo colpo di fortuna: presso il Policlinico San Matteo di Pavia, dove fui ricoverato d’urgenza, era pronta una ‘equipe’ di cardio-chirurgia per un intervento programmato, che fu rinviato. La guidava il prof. Luigi Martinelli.
Dopo fui ricoverato in terapia intensiva per 15 giorni e altri 15 in psichiatria.
Il certificato di dimissione non contiene nessuna diagnosi !
Il 15 dicembre 1992 riassumevo servizio, nonostante una lunghissima ferita chirurgica che taglia tutto lo sterno e arriva 5 cm. sotto l’ombelico.
La degenza in terapia intensiva fu caratterizzata da una continua sedazione, ero un paziente molto irrequieto, lo dovettero fare, dovettero anche legarmi i polsi per evitare che mi sfilassi il sondino nasale, come avevo fatto più di una volta.
Ci guadagnai una sindrome di claustrofobia, oggi molto attenuata.
Nel 1993, il 2 novembre, fui sospeso dal servizio per due mesi con provvedimento del G.I.P. su richiesta del P.M.! La sospensione fu trasformata in cautelare a tempo indeterminato. Rimasi quasi tre anni fuori servizio, a mezzo stipendio, con tre figli all’università.
Cos’era accaduto ?
Niente di particolare. A udienza un detenuto pugliese, in carcere per traffico di sostanze stupefacenti, divenne troppo aggressivo, convinto forse di poter travalicare un direttore che appena cinque mesi prima aveva tentato di ammazzarsi. Non lo disse esplicitamente, ma lo lasciò intendere. Un comportamento inaccettabile, che minava alle fondamenta l’autorità del direttore. Non bastava cacciarlo via dall’ufficio perché urlava come un forsennato, tra l’altro dotato di un vocione molto potente.
Lo feci isolare come misura precauzionale, poi, appena possibile, riunii il consiglio di disciplina che irrogò una sanzione pari alla durata dell’isolamento precauzionale. Un vice sovrintendente, siciliano, di dubbio orientamento sessuale ancorché sposato ma senza figli, pensò bene, di sua iniziativa, recarsi nell’ufficio del magistrato di sorveglianza per denunciare l’accaduto, ignorando totalmente la via gerarchica.
Non faccio nomi. Quel magistrato di sorveglianza verbalizzò le dichiarazioni del vice sovrintendente e le trasmise alla procura della repubblica, che aprì un fascicolo al riguardo a mio nome.
Quando arrivò l’avviso di garanzia ne fui totalmente sorpreso, tutti lo sapevano eccetto io. Senza riflettere chiamai quel vice sovrintendente in ufficio e gli chiesi cosa aveva fatto. Non ci si crederà, ma quel tale credeva veramente di essere un ufficiale di polizia giudiziaria, nell’esercizio delle cui funzioni aveva rinvenuto nel mio comportamento (così mi disse) l’abuso d’ufficio. E fece di peggio, andò nuovamente in procura per denunciare quel presunto tentativo di pressione, il che provocò l’apertura di un nuovo fascicolo a mio nome.
Poi ritenne il P.M. (una donna che successivamente mise sotto indagine il presidente della II^ sezione penale del tribunale di Pavia e che, quando la procura di Brescia archiviò, prudentemente chiese una aspettativa di due anni ed emigrò in Nuova Zelanda, al seguito del marito, senza più rientrare in magistratura) che c’era pericolo di inquinamento delle prove, chiese ed ottenne la mia sospensione.
Inquinamento delle prove ! Erano documentali e testimoniali: il procedimento disciplinare, la deposizione del vice sovrintendente e del reggente l’ufficio di Comandante di reparto.
Non solo. Il P.M. era una donna bionda, gelida, scostante, sospettosa, troppo.
Quando un brigadiere dei carabinieri mi notificò nel mio ufficio il provvedimento del G.I.P. fu come se mi fossi sparato un altro colpo al cuore.
La sequenza di orrori era senza fine.
Però non lasciai subito il servizio, c’erano da scarcerare alcuni detenuti e firmai le lettere di dimissioni: apriti cielo! Abuso di funzioni, reato di competenza pretorile, terzo fascicolo penale.
L’accusa di abuso d’ufficio non resse già in primo grado, quella di tentativo di subornazione di testimone mi procurò una condanna a otto mesi di carcere, sospesi. I fascicoli erano stati riuniti, feci appello.
Il procedimento in pretura finì in primo grado con una condanna a 15 giorni di reclusione e alla pubblicazione della sentenza su alcuni quotidiani, locali e nazionali. Anche qui feci appello.
Cappi che ci voleva un difensore di alto profilo. Scelsi il prof. Piermaria Corso del foro di Milano, ordinario di procedura penale all’università di Parma e non me ne pentii: in appello, previa riunificazione dei tre processi, conferma dell’assoluzione di primo grado per l’abuso d’ufficio (era un atto amministrativo, fuori portata della magistratura penale), assoluzione per il reato di tentativo di subornazione di testimoni, conferma della condanna di primo per esercizio abuso della funzione.
Il P.G. di Milano propose ricorso per cassazione, che si concluse con la conferma delle assoluzioni di primo e secondo grado e con la cassazione senza rinvio della sentenza del Pretore di Pavia.
Dal momento che ero stato assolto da ogni accusa, era legittimo aspettarsi una riammissione in servizio e qui entriamo nell’atmosfera kafkiana tanto cara agli estimatori del geniale scrittore ceco.
Accadde che:
1) l’ufficio centrale del personale mi riammise in servizio a Pavia, nella mia qualità di direttore;
2) quel vice sovrintendente se la fece addosso dalla paura, temendo mie ritorsioni;
3) il provveditore regionale Giuseppe Cangemi intervenne a bloccare il mio rientro in servizio a Pavia, insomma si oppose, sollecitato dal quel vice sovrintendente;
4) l’ufficio centrale del personale a sua volta, forse per ritorsione, mi assegnò al provveditorato regionale di Milano, alle dipendenze del Cangemi.
Mi toccava andare ad assumere servizio lì, ma entrai in paranoia, perché cessava il diritto all’alloggio di servizio, il quale però, mancando l’assegnazione di un altro direttore, non doveva essere liberato subito.
Non mi rassegnai e impugnai il provvedimento al T.A.R., che ne accolse la sospensiva. Questa volta non c’era scampo, devo rientrare a Pavia, quel famoso vice sovrintendente si fece distaccare altrove, mi pare a Voghera.
La rassegnazione a Pavia durò poco, si mobilitano contro di me le associazioni sindacali, specie la CGL – Funzione Pubblica, il cui rappresentante Atzeni Alessandro – vice sovrintendente di polizia penitenziaria - non gradiva che il direttore del carcere pretendesse di comandare e governare il carcere, visto che il responsabile finale era sempre lui, il direttore (art. 2. comma 1, alinea 1:” Il direttore dell'istituto assicura il mantenimento della sicurezza e del rispetto delle regole avvalendosi del personale penitenziario secondo le rispettive competenze.” Regolamento Esecuzione dell’Ordinamento penitenziario).
Anche il provveditore Cangemi, non propriamente un cuor di leone, probabilmente subisce, fatto sta che venne adottato un nuovo provvedimento di trasferimento, per incompatibilità ambientale, nuovamente al Provveditorato regionale di Milano, cioè alle dipendenze del Cangemi.
Per due volte quest’uomo mi ha fatto oggetto delle sue ‘attenzioni’, per due volte mi ha dovuto tenere con sé a Milano: una nemesi storica.
Però la situazione si doveva sbloccare, perché era stata assegnata a dirigere Pavia, dove si trova tuttora, la dr.ssa Jolanda Vitale che era in servizio con me al Provveditorato e che dopo 13-14 anni di servizio ancora non aveva ricevuto, per quanto è a mia conoscenza, la direzione di un carcere, che non gradiva perché il marito era ed è tuttora funzionario di ragioneria in servizio a San Vittore.
Avevo già avuto lo sfratto da un direttore in missione, ma me ne ero fregato.
Adesso non si poteva, era arrivato per la seconda volta, resistere era possibile ma sconveniente.
Intanto a San Vittore era arrivato il dr. Felice Bocchino, dirigente generale dipartimentale, con l’incarico di “commissario ad acta” per lo svuotamento di San Vittore, diretto dal direttore ‘storico’ Luigi Pagano. cronicamente sovraffollato.
Sapevo che era il Bocchino, da tempo, nella grazie del cons. Falcone, chiesi di parlargli, nell’ufficio del direttore di San Vittore, gli prospettai la mia situazione e chiesi di farmi avere un abboccamento con Falcone, l’ottenni, andai a Roma, ci parlai. Era ruvido, come sempre, ma si mostrò comprensivo, aveva capito, finalmente, che io con l’evasione del Guido dal carcere di San Gimignano non c’entravo per nulla, concordammo per un ritrasferimento a Eboli, che nel frattempo, fallito il mio tentativo di far diventare la vecchi a struttura (il castello dei principi Colonna) una Scuola di Formazione per la polizia penitenziaria, era stata trasformata in Casa di Reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti, sede di livello dirigenziale. Mi risulta che il provvedimento arrivò anche a Eboli, il direttore, anzi la direttrice (Lucia Castellano, oggi alla direzione della casa di reclusione di Milano Bollate – un bel salto da minuscolo istituto di Eboli) sarebbe dovuta tornare a Napoli Secondigliano, in sottordine, ma questo provvedimento fu bloccato e successivamente annullato.
Era accaduto che Falcone, per la seconda e ultima volta, deluso nella sua aspettativa di assumere la funzione di capo del D.A.P., dopo la scomparsa di Michele Coiro avvenuta il 25 giugno 1997, aveva sbattuto la porta se nera andato. Infatti a capo del D.A.P. fu assegnato Alessandro Margara, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, il suo vice al posto di Falcone fu Filippo Mancuso, procuratore distrettuale antimafia a Napoli.
Il ministro di grazia e giustizia era Giovanni Maria Flick.
Però il problema di trovarmi una collocazione era ornai improcrastinabile e fui destinato, d’ufficio come di consueto, senza essere nemmeno consultato, a Lodi.
Così il cerchio, aperto all’inizio di questo lavoro con Lodi, si chiude a Lodi.
Merita solo un accenno al mio ultimo incarico prima di esser collocato in pensione, il 1° febbraio 2005, avendo compiuto 67 anni.
Mi fu affidato il compito di riaprire il carcere di Lecco, città natale di Roberto Castelli, ministro di giustizia “pro tempore”, dopo una completa ristrutturazione, compito che il dr. Bocchino voleva affidare a me, però il suo provvedimento si incrociò con un altro dipartimentale che affidava questo incarico ad altro direttore: Provveditorato e Direzione Generale del Personale non si parlavano!
A maggio 2004 il carcere fu riaperto formalmente con tanto di cerimonia, ma non entrò in funzione.
Quel collega fece una fugace apparizione a San Vittore alla direzione di San Vittore, durò pochissimo, qualche mese, poi andò via, anzi ritornò da dove era venuto e venne il turno della dr.ssa Gloria Manzelli, attuale direttore.
Cos’era accaduto ? Semplice: Castelli aveva congegnato uno spostamento di provveditori regionale, nell’ambito del quale il dr. Felice Bocchino era stato assegnato a Padova, Provveditorato regionale del Triveneto, il posto vuoto nella scacchiera dei movimenti doveva esser occupato dal dr. Giovanni Salamone, provveditore regionale della Liguria, ma questo movimento, per motivi che non conosco, saltò. Castelli fece ricorso al dr. Pagano, primo dirigente anziano, successivamente promosso dirigente generale. Prima di lui c’era stato il caso del dr. Aldo Fabozzi, direttore della casa penale di Milano Opera, assegnato al provveditorato di Milano come vicario dopo una sequenza di evasioni clamorosa nel carcere da lui diretto, quindi promosso dirigente generale nel 2001, direttamente dalle funzioni di primo dirigente, saltando lo scalino di dirigente superiore, oggi soppresso.
Il dr. Pagano era nelle peste, perché il carcere di Lecco, nonostante la riapertura, non era in realtà agibile, nonostante ogni suo sforzo e nonostante vi fosse una direttrice ormai da mesi, la dr.ssa Cristina Piantoni.
Si decise Pagano all’ultimo momento e, dopo avermi contattato, dispose che il dr. Luigi Morsello “si rechi a decorrere dal 16.12.2004, e sino a cessate esigenze, presso la Casa Circondariale di Lecco per valutare l’effettiva situazione organizzativa e compiere tutti gli atti amministrativi tesi alla soluzione delle problematiche che sino ad oggi non ne hanno consentito la piena attivazione (in realtà il carcere non funzionava ancora per nulla, non riceveva nemmeno gli arrestati, n.d.a.). Si precisa che la struttura dovrà essere resa operativa entro una settimana, e che questo ufficio dovrà essere costantemente informato dello stato di avanzamento delle procedure. La dr.ssa Piantoni è invitata a rendere la massima collaborazione al Funzionario inviato in missione in modo da assicurare i tempi previsti.”.
La dr.ssa Cristina Piantoni, malauguratamente, si ammalò, una malattia prolungata per cui restò fuori servizio anche oltre la data del 31 gennaio 2005, ultimo mio giorno di servizio.
La disposizione del dr. Pagano era tassativa: entro una settimana la struttura doveva essere operativa. Siccome l’ordine di missione era datato 16 dicembre, il 17 mi recai per la prima volta a Lecco, quel carcere doveva essere funzionante, cioè in grado di ricevere gli arrestati, entro il 24 dicembre 2004!
Se due direttori non c’erano riusciti, da maggio a dicembre 2004, mi si chiedeva di fare miracoli, ed io lo feci il miracolo. Anziché il 24 dicembre il carcere fu pronto a ricevere gli arrestati il 22 dicembre, come comunicai formalmente in pari data. C’ero stato fino a quella data in missione appena tre giorni. Ma non feci miracoli, semplicemente avevo quella esperienza che avevo acquisto lungo 40 anni di lavoro, nelle condizioni date che ho descritto in questo lavoro.
Il 31 gennaio 2005 il carcere era perfettamente funzionante in ogni sua funzione, occorrevano, credo, solo delle messe a punto.
Il 1° febbraio ero in pensione.
Il mio stato d’animo fu euforico per tre - quattro giorni, poi il mio stato d’animo si normalizzò ed è ancora così oggi.
Devo però svolgere qualche considerazione finale.
Fatta eccezione per il periodo dal 1967 al 1980, in cui un direttore Generale (Giuseppe Altavista) ed un capo della segreteria (Girolamo Minervini) conoscevano alla perfezione i loro direttori di ogni ordine e grado ed erano soprattutto Minervini – loro di sostegno in ogni frangente, dopo la scomparsa di questi due splendidi magistrati [l’uno - Giuseppe Altavista – lucano, morì di morte naturale il 30 dicembre 1979 (aveva 65 anni) , l’altro – Girolamo Minervini – pugliese, che insegnava a tutti di fare la propria parte senza aspettare che altri la facessero prima, il 18 marzo 1980, ucciso dalle B.R. mentre si recava al lavoro in tram, aveva 61 anni ed era stato designato il giorno precedente dal consiglio dei ministri quale successore di Altavista].
Ecco cosa scrive Mauro Minervini in commemorazione del padre: “Il 16 marzo 1980, di ritorno da Brescia, ove era stato per il trigesimo della morte di mio Nonno, mi venne a trovare. Meglio, venne a trovare, nell'ordine, la nipote Sara e me. Mi confermò che ormai la nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena era certa e che,in tal caso, lo era quasi altrettanto l'esecuzione della sentenza di morte da parte delle br. Mi illustrò ove fosse la polizza assicurativa e quali fossero le provvidenze per mia Madre, alla quale mi chiese di stare vicino . Per l'ultima volta discutemmo della questione. Con toni molto pacati e tranquilli mi chiarì che "in guerra un Generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore" e che in fin dei conti non era lui tipo da morire d'influenza.
Mi precisò che il carissimo Augusto Isgrò -Questore di Roma- aveva fortemente insistito per la scorta, ma che non intendeva far ammazzare tre o quattro poveri ragazzi. Poi, con un'incoerenza che ancora mi commuove, mi disse di essere preoccupato, dato il momento, per i rischi connessi al mio impegno sindacale in Cisal. A mia moglie diede affettuosamente sulla voce quando saltò fuori un cenno alla pena capitale. Credo di averlo mandato a quel paese.
Lo rividi il giorno successivo, a pranzo. La sera mi comunicò che il Presidente del Consiglio, Cossiga, gli aveva definitivamente confermato la nomina a Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena.
La mattina del 18 marzo, in autobus e senza scorta, andò a fare la sua parte, senza chiedersi se l'avessero fatta anche gli altri.
Sul volto, da morto, aveva l'espressione serena di sempre.”.
Dopo di loro il diluvio.
Mi resta da ricordare le persone che hanno lavorato con me e che non ci sono più. Non le elenco, i loro nomi hanno significato solo per me.
Desidero rivolgere loro un pensiero grato e commosso, da chi invece non voleva più vivere e vive ancora e in buona salute, fisica e mentale, e che si augura di poter essere ancora utile al proprio prossimo e, perché no, all’amministrazione penitenziaria.
Ora so come difendermi.


FINE

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.