martedì 13 ottobre 2009

NAPOLITANO: NESSUN ACCORDO SUL LODO ALFANO


Il Presidente al premier: con la Consulta limpida collaborazione


di Vincenzo Vasile


Patti, accordi sotterranei, scambi occulti? Macché, tutto inventato. Il Quirinale, assediato anche nel fine settimana dalle venefiche “rivelazioni” del Giornale berlusconiano fa passare la domenica, e replica ieri mattina con la seconda nota ufficiale in cinque giorni: "È del tutto falsa l'affermazione che al Quirinale si siano stipulati patti su leggi, la cui iniziativa, com'è noto, spetta al Governo, e tanto meno sul superamento del vaglio di costituzionalità affidato alla Consulta". Il fatto è che il giornale-guastatore domenica ha sparato in prima pagina la notizia di un retroscena sapido e, se fosse vero, davvero imbarazzante: e cioè il background dietro il lodo Alfano del lavoro di identificabili sherpa quirinalizi al fianco dei colleghi del ministero della Giustizia per redigere “intere parti” del provvedimento, a titolo di favore in contraccambio della bocciatura da parte di Napolitano dell’emendamento blocca processi inserito in Senato dalla maggioranza nella legge di conversione del decreto sicurezza del 23 maggio 2008. Ritirato quell’emendamento per il “niet” di Napolitano, funzionari del Colle e uomini di Alfano si sarebbero, insomma, messi al lavoro per concordare il “lodo”, garantendo non solo la promulgazione del Presidente, che in effetti avvenne, ma anche – secondo Feltri – il futuro sì della Consulta, che invece non si verificò: “un patto calpestato”.
Nessun accordo, replica con toni indignati Napolitano, attraverso il suo ufficio stampa. Semmai, come di consueto, si trattò di una normale collaborazione tra gli uffici della presidenza e dei ministeri competenti: "Prassi da lungo tempo consolidata di semplice consultazione e leale cooperazione, che lascia intatta la netta distinzione dei ruoli e delle responsabilità", si afferma. Anche se tale prassi per l’esattezza della ricostruzione storica, risultò operante soprattutto nel settennato di Carlo Azeglio Ciampi, che si richiamò a sua volta al lontano precedente dello “Scrittoio del presidente”, Luigi Einaudi, che sin dagli albori della Repubblica – si fa ancor oggi rilevare dalle parti del Colle - era ingombro di disegni di legge governativi, emendamenti e provvedimenti suggeriti o corretti dal capo dello Stato. Mentre non risulta una consuetudine di questo tipo ai tempi di Scalfaro, e andando a ritroso nel tempo, Cossiga picconava senza perdersi in trattative, e Segni, Saragat e Gronchi furono semmai messi variamente sotto scopa per accuse di indebite interferenze sul Parlamento e sugli equilibri politici. Nel merito, la nota del Colle ricostruisce così la vicenda. A partire dalla "palese incostituzionalità dell'emendamento 'blocca processi'", decretata da Napolitano. Il governo si adegua. Successivamente, nel giugno 2008, il Consiglio dei ministri adottò il disegno di legge Alfano in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato. Napolitano ne autorizzò la presentazione al Parlamento, e successivamente, dopo l'approvazione da parte delle Camere, promulgò la legge. Un via libera che, però, "non poteva in nessun modo costituire 'garanzia' di giudizio favorevole della corte in caso di ricorso". E ancora: "Il rispetto dell'indipendenza della Corte Costituzionale e dei suoi giudici, doveroso per tutti, ha rappresentato una costante linea di condotta per qualsiasi Presidente della Repubblica".
Circola la sensazione che, tuttavia, le scintille dello scontro istituzionale e delle polemiche si stiano in qualche modo dissipando. Antonio Di Pietro, per esempio, a sorpresa sotterra l’ascia di guerra finora brandita contro il Colle: “Mettiamo da parte ogni critica al capo dello Stato perché in questo momento in pericolo è lo stato di diritto e c’è il problema di un presidente del Consiglio come Berlusconi”. E la stessa Corte Costituzionale ha fatto trapelare un’anticipazione dei motivi di prossima pubblicazione della sua sentenza sul lodo, che sembra offrire una qualche soluzione, almeno sul piano tecnico. Salta fuori un paradosso. Tra i precedenti che hanno ispirato il "no" al lodo salva-Berlusconi c'è una sentenza favorevole a Cesare Previti: a sentenza 451 del 2005, che aveva, infatti, stabilito un modo per trovare un equilibrio tra le esigenze pubbliche da parte delle alte cariche dello Stato e quelle di un corretto svolgimento di un eventuale processo penale. Allora la Corte Costituzionale scrisse che, nel caso che un imputato sia anche parlamentare, il giudice ha "l'onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari".
Seguendo questa indicazione, da tradurre in legge, anche i processi a Berlusconi andrebbero avanti, ma i giudici avrebbero l'obbligo di fissare, d'intesa con il premier, un calendario delle udienze che tenga conto degli impegni istituzionali del presidente del Consiglio. Il tutto, per l’appunto, con legge ordinaria, senza modificare la Costituzione, e favorendo ovviamente - ma questo la Consulta non lo dice – i tentativi degli avvocati del premier di tirare la corda dei rinvii fino alla prescrizione.

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