6/3/2010
MICHELE AINIS
Gira e rigira, alla fine il governo ha tirato fuori dal cilindro un coniglio vestito da decreto. Così, giusto per non perdere le sane abitudini. Anche se i decreti in materia elettorale sono vietati espressamente (art. 15 della legge n. 400 del 1988). Anche se l’escamotage della norma interpretativa suona in realtà come una frode, che in passato
Nel frattempo la gara elettorale si è trasformata in una zuffa sulle regole. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima. Senza andare troppo a ritroso, si può ricordare per esempio che le regionali del 2005 furono accompagnate da un corteo d’inchieste giudiziarie su e giù lungo la penisola, dal Piemonte alla Campania. Per quale ragione?
Firme fasulle, oppure carpite con l’inganno, oppure apposte in fogli bianchi, senza l’elenco dei candidati; anche perché di solito le liste vengono chiuse all’ultimo minuto.
Insomma ci risiamo. Generalmente gli uomini imparano dai propri errori; ma gli uomini politici hanno le orecchie d’asino. Eppure questa vicenda surreale, che in Lombardia e nel Lazio può ancora inaugurare una partita con una sola squadra in campo, dovrebbe impartirci quantomeno una lezione. Per apprezzarla, c’è però da prendere sul serio la folla di domande che in queste ore si vanno ponendo gli italiani. Qual è il peso della legalità formale rispetto all’interesse sostanziale di scegliere fra due programmi alternativi? È giusto che il rito democratico sia ostaggio d’una procedura burocratica? È accettabile che il successo d’una lista venga sancito non dagli elettori bensì dai magistrati? E c’è infine una ragione per rendere esente la politica dai rigori della legge, a differenza di quanto accade in sorte ai comuni cittadini?
Queste domande investono la natura stessa del diritto. Che tuttavia è sempre una medaglia con due facce, l’una formale, l’altra sostanziale. La prima viene scolpita a caratteri di piombo nelle Gazzette ufficiali, attraverso una litania di commi e articoli, che a propria volta disegnano procedimenti, uffici, competenze. Se non esistesse tale forma, se tutto il diritto fosse racchiuso nella parola volubile e volante del sovrano, noi non conosceremmo la linea di confine fra i torti e le ragioni, saremmo come ciechi al cospetto della legge. Ecco perché i giuristi, da Montesquieu a Calamandrei, ripetono da secoli che la forma è garanzia di libertà. Ma ne è al contempo ancella, perché la libertà - insieme all’eguaglianza - esprime lo specifico fine del diritto, la sua ragione sostanziale.
Il guaio è che noi italiani non sappiamo tenerci in equilibrio su queste due parallele. E allora ci alleviamo in seno i due figli degeneri del diritto: formalismo e sostanzialismo. Il primo indossa per esempio l’abito confezionato dalla commissione di vigilanza sulla Rai, che in nome della par condicio ha strangolato il dibattito politico che la par condicio dovrebbe viceversa garantire. Il secondo rappresenta la perenne tentazione di chi siede nella stanza dei bottoni, ma i suoi effetti sono ancora più nefasti. Nel dopoguerra - per fare un altro esempio -
C’è un modo per riconciliare la forma alla sostanza, in quest’ennesima vicenda di delitti elettorali? Sì che c’è, se non per l’oggi, almeno per il domani. Ma a condizione d’abbracciare una soluzione estrema, che tagli la mala pianta alla radice. Le norme in vigore impongono di raccogliere varie migliaia di firme per candidarsi alle elezioni, facendole autenticare da un notaio, da un cancelliere, da altri pubblici ufficiali. Una montagna impervia da scalare per chi non abbia alle spalle un partito organizzato, ed è infatti da questa somma vetta che s’esercita la signoria dei partiti sugli eletti. Salvo poi calpestare la regola essi stessi, quando conviene, quando non c’è tempo, quando il candidato sbuca fuori all’ultima curva del circuito. Ecco, rompiamogli in testa questa spada. Togliamo via di mezzo tutti i filtri per candidarsi alle elezioni. Costringiamo i partiti a competere con liste di cittadini fuori dai partiti. Se poi questo ne segnerà la fine, vorrà dire che se la sono un po’ cercata.
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