DI GIOVANNI VALENTINI
Più che una bocciatura del regolamento varato dall'Autorità di garanzia sulle Comunicazioni, in realtà il no del Tar del Lazio alla sospensione dei talk-show durante la campagna elettorale è una bocciatura del regolamento-capestro approvato dalla maggioranza di centrodestra nella Commissione di Vigilanza. Era stato quello, infatti, il primo vulnus nell'applicazione della legge sulla par condicio ai danni della Rai. E l'Authority non aveva fatto altro che estenderlo alle tv private proprio in forza dello stesso principio di parità: magari, nelle intenzioni di qualcuno, anche per provocare una pronuncia contro il cosiddetto «editto di San Macuto» o - come ha dichiarato ieri il commissario dell'Agcom Sebastiano Sortino - «per chiarire se quella decisione era legittima o meno».
Il Tribunale amministrativo, a cui hanno presentato il loro ricorso Sky e La 7, non ha notoriamente il potere di censurare un atto parlamentare. Ma di fatto il suo responso si ritorce come un boomerang sulla Rai, oltre che sulla Vigilanza, riaprendo la pratica anche per la televisione pubblica.
Con la drastica e improvvida scelta di chiudere le trasmissioni di approfondimento fino alle elezioni, nel suo zelo repressivo il Cda di viale Mazzini aveva imposto arbitrariamente una censura preventiva. E ora rischia per questo addirittura una sanzione da parte della medesima Authority, oltre al «danno erariale» per la riduzione degli ascolti e degli introiti pubblicitari. Non si possono, dunque, vietare i talk-show: non è in discussione, insomma, se vanno trasmessi o meno, ma semmai come, con quali criteri e quali regole.
L'articolo 2 della legge sulla par condicio, a cui si richiama la delibera del Tar, parla esplicitamente di emittenti radio-televisive. In generale, al plurale. E quindi, si applica di conseguenza a tutte le reti, pubbliche e private. Ma con il suo regolamento
Nel puzzle giuridico e mediatico che ha contribuito ad avvelenare la «bolgia» di una convulsa vigilia elettorale, la questione dei talk-show è tuttavia la classica pagliuzza di evangelica memoria che minaccia di occultare la trave. Con tutto il rispetto per i rispettivi conduttori e per il loro lavoro, le trasmissioni di approfondimento costituiscono soltanto una parte del problema: per l'esattezza, un terzo. Il tavolo decisivo su cui si gioca la delicata partita del consenso politico ed elettorale è un altro. E cioè quello dei telegiornali, una macchina da guerra che determina la formazione dell'opinione pubblica, condizionando pesantemente i comportamenti e le scelte di voto.
A questo proposito, basterà ricordare ancora una volta i dati diffusi recentemente dal Censis. I Tg, nel loro complesso, risultano determinanti per quasi il 70% degli elettori e questa percentuale, già di per sé inquietante, sale addirittura al 76% dei meno istruiti, al 78,7 dei pensionati e al 74 delle casalinghe. Mentre i programmi di approfondimento e i controversi talk-show arrivano appunto al 30,6. Sono i telegiornali, dunque, lo strumento principale di formazione e raccolta del consenso. O purtroppo, come spesso avviene, di manipolazione del consenso popolare. E sono i Tg, controllati direttamente o indirettamente dal governo, a fornire secondo le ultime rilevazioni dell'Agcom - un'informazione pesantemente squilibrata a favore del centrodestra: a cominciare dall'ormai famigerato Tg Uno del «direttorissimo» Augusto Minzolini, come lo chiama confidenzialmente il presidente del Consiglio. Il Caimano e lo Squalo, un'accoppiata perfetta.
Non meravigliamoci più di tanto, allora, se poi la maggioranza degli italiani finisce per credere che la escort barese Patrizia D'Addario è un'agente al soldo di qualche servizio segreto straniero, una spia o una pericolosa mitomane. Oppure che l'avvocato Mills è stato «assolto» dall'accusa di corruzione, e con lui magari anche Silvio Berlusconi, mentre il reato è caduto in prescrizione per effetto delle leggi su misura introdotte dal governo Berlusconi e approvate dal centrodestra. Ovvero che a Roma e a Milano il Partito della libertà è stato vittima di un complotto elettorale, ordito dai radicali e dalle «toghe rosse», per boicottare le sue liste. O magari che il conflitto di interessi è un'invenzione, che la par condicio è una norma antidemocratica e che in Italia vige la più ampia e assoluta libertà d'informazione.
(13 marzo 2010)
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