venerdì 12 marzo 2010

Il libretto bianco di Silvio Ceausescu


di FRANCESCO MERLO

CERTO, alla prima occhiata anche io, come tutti, ho pensato al catechismo populista dei sudamericani, alla Bulgaria, al kitsch di Ceausescu che giocava al golf o indossava gli sci, al libro verde di Gheddafi, alla parodia italiana di Stalin «piccolo padre dei popoli», a quei mondi che sono destinati o al dominio dei generali o a quello degli imbonitori, o la tromba o il trombone.

Ma poi, quando ho cominciato a leggere e, sbalordito, mi sono inoltrato in questa melassa di pittura, in questo abuso di sentimento rancido, insozzato e soffocato in una pozzanghera di falsa caramella, ebbene è a Sanremo che ho pensato, a una certa idea dell'Italia credulona e caprona.

E più leggevo e più mi sembrava di sentire Berlusconi cantare: "da un male deve nascere un bene grande, grande grande". In un paese dove la corruzione di Stato è l'esibizione corale, la violenza di un'orchestra forte, Berlusconi gorgheggia: "siamo l'Italia che sa amare", "siamo tosti, orgogliosi e concreti", "se non sai amare non puoi costruire niente di buono, per te e per gli altri", "anche lo Stato è tornato a fare lo Stato", "non sarò più un leone in gabbia". E più andavo avanti nella lettura e più pensavo a quanto è diventato inutile contrapporre alle voci di petto e di stomaco dell'Italia di Tartaglia e di Berlusconi la voce di testa, misurata e guidata, il timbro cupo, velato e grave del Diritto, della politica, della normalità perduta.

Insomma Berlusconi apre il suo libro più agiografico e più sepolcrale con motivetti e ritornelli che contrappone ai toni acuti e alle distorsioni, alla malattia del povero ma violento Tartaglia che quest'opera ha appunto ispirato, ed è infatti a lui che è indirettamente dedicata: "Il dolore, non solo fisico, è stato grande. Il rischio che ho corso anche... E come segno di riconoscenza, ho deciso di raccogliere una selezione dei tanti messaggi di incoraggiamento che mi sono giunti. Tutte queste manifestazioni di simpatia (dal greco 'syn pàthos', saper patire assieme) mi hanno risarcito di tutte le calunnie, le offese, le false accuse".

Da un lato dunque c'è il tanfo del berlusconismo al tramonto e dall'altro l'atto inconsulto di piazza Duomo, a Milano. Insieme Tartaglia e Berlusconi, la musa e il suo poeta, compongono un'Italia al ribasso, un'Italia che ricorre al ventre e alle parti basse appunto, dove i due se la cavano benissimo, l'uno predisponendo l'altro in un rapporto inscindibile tra il lanciatore di statuetta e l'uomo che vuole diventare statuetta.

E' tutto qui il libro. Tra i "grazie", i "ti vogliamo bene", "non mollare", "sei il nostro nonno", "anche mio figlio di tre anni ha pianto per te", che sono le solite banalità del 'popolo dei fax', quel pezzo di mondo che spesso è disturbato, tanto a destra come a sinistra, c'è il tentativo patetico di fare del colpo di statuetta la festa di consacrazione letteraria a uomo del destino, lo svelamento finale perché il mito del leader si nutre di attentati al tempo stesso riusciti e mancati, ha bisogno di ordigni inesplosi, di un corpo contundente che si intrufola nello sventolio dei tricolori, di una ferita che si rimargina in mezzo allo sbigottimento attivo della folla.

La sola, vera differenza fra Tartaglia e Berlusconi è che il primo non ce l'ha fatta a saltare dentro la storia mentre l'altro comincia ad uscirne con questa crepuscolare brodaglia, edita nientemeno dalla Mondadori, che non merita di essere recensita né tanto meno sbranata, non riesce ad essere offensiva, non funziona neppure come provocazione e non avrà reazioni indignate perché con convince e non vince. Sa appunto di fondo di caffé, di barile raschiato, e non soltanto perché il leader non fa più sorridere neppure gli uomini che gli stanno vicini e molto più sfacciatamente del passato lo servono nelle istituzioni, nell'informazione e alla Rai: sono ancelle innamorate in pubblico che, però, in privato si abbandonano al dileggio e alla congiura (ed è una storia che in Italia si ripete sempre perché come diceva Valery: "quando qualcuno ti lecca le scarpe, mettigli il piede addosso prima che cominci a morderti") .

La verità è che solo al gesto inconsulto di Tartaglia il libro fa malinconicamente pensare senza più la forza spiazzante delle altre invenzioni di Berlusconi, dalla nave elettorale alla bandana, dal lifting come evoluzione finale del trasformismo alla barzelletta strumento di governo, e poi il contratto con gli italiani, lo slogan "meno tasse per tutti"... Anche la foto di copertina che ovviamente lo ringiovanisce non rimanda più alla cura di sé e al trucco seduttivo ma propone lucentezze oleose ed emana un forte odore di Prep, cattiva colonia e pensiero stantio, sembra il cartellone di una barberia meridionale, di quelle che stavano sotto l'invitante scritta "taglio italiano". Anche il ricorso alla foto-patacca è insomma così smodato da rivelare Berlusconi nella sua verità più crudele.

Alla fine ci rimane solo l'amarezza per la scelta della Mondadori. Il libro, infatti, non è pubblicato dal "Partito delle Libertà" ma dalla casa editrice che, con l'Einaudi, fu la più autorevole, la più amata, la più coraggiosa e la più geniale, un tempio e un'istituzione paragonabili, che so?, alla Gallimard francese, alla Collins e alla Phaidon inglesi, alla Random House americana, alla Suhrkamp Verlage tedesca. E bisogna dirlo forte che questo libro nella parte centrale diventa, in carta patinata, un volantino elettorale, pura propaganda che sarebbe anche legittima, certamente più della stanca agiografia senile, se non portasse appunto il marchio Mondadori.

Ebbene, da questo punto di vista il volume è peggio di una statuetta sul viso della Mondadori. E' un attentato riuscito alla nostra memoria, una bestemmia contro la fonte battesimale di chiunque in Italia abbia creduto di potere capire il mondo attraverso i libri. In un Paese meno corrotto e più civile sarebbe uno scandalo. Perché nessun voto in più o, chissà, magari - involontariamente - in meno a Berlusconi, vale la reputazione (perduta) della Mondadori.

(12 marzo 2010)

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