lunedì 15 marzo 2010

Lavoro, il no di Napolitano alla legge anti articolo 18


di MASSIMO GIANNINI

"PERTINI non avrebbe firmato", c'era scritto su una decina di magliette fuori ordinanza, esibite sabato scorso, alla manifestazione viola sulle regole. Di fronte a questi sia pure isolati episodi di "fuoco amico", si può immaginare lo stato d'animo di Giorgio Napolitano. Non solo irritazione, ma anche indignazione. Proprio nelle stesse ore, infatti, il presidente della Repubblica sta meditando seriamente di rinviare alle Camere una delle ultime leggi volute dal governo. Si tratta del famigerato ddl 1167-B, quello che introduce la possibilità preventiva di ricorrere all'arbitro, invece che al giudice, in caso di controversie di lavoro.

In quel testo, approvato definitivamente dal Senato la scorsa settimana, c'è una norma che rischia di cambiare radicalmente il profilo del nostro diritto del lavoro, e il suo sistema di garanzie. Dall'articolo 31 in poi c'è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. In sostanza, modificando l'articolo 412 del codice di procedura civile, si prevedono due possibilità alternative per la risoluzione dei conflitti: o la via giudiziale oppure quella arbitrale. L'innovazione principale è che già al momento della firma del contratto di assunzione, anche in deroga ai contratti collettivi, al lavoratore potrebbe essere proposto (con la cosiddetta clausola compromissoria) che in caso di contrasto futuro con l'azienda le parti si affideranno a un arbitro, e non a un giudice. Ebbene questa legge, che il Capo dello Stato ha già visionato sommariamente, suscita in lui forti perplessità. La sta esaminando insieme al "nucleo di valutazione" del Colle, formato da Salvatore Sechi, Donato Marra e Loris D'Ambrosio. Non ha ancora preso una decisione definitiva. Ma, allo stato attuale, sembra intenzionato a non firmare la legge. E a rinviarla al Parlamento con messaggio motivato, per una nuova deliberazione. Secondo i poteri che gli assegna l'articolo 74 della Costituzione e che può attivare anche per provvedimenti non necessariamente inficiati da "vizi palesi" di legittimità costituzionale.

La norma è stata già contestata dalla Cgil. Guglielmo Epifani la considera uno strumento che aggira le tutele previste dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. "Quel testo - osserva - viola chiaramente la Costituzione, e noi siamo pronti a fare ricorso alla Consulta". Non a caso la Cgil ha posto anche questa "aggressione ai diritti dei lavoratori" al centro del suo sciopero di venerdì scorso. Il ragionamento di Epifani è semplice: l'arbitrato è un istituto assai meno garantista per il lavoratore, rispetto alla tutela giurisdizionale assicurata da un magistrato della Repubblica. Oltretutto, se l'opzione per la via arbitrale gli viene prospettata all'atto dell'assunzione, tanto più in una fase di drammatica crisi occupazionale, il lavoratore rischia di essere esposto ad un "ricatto" implicito, che lo coglie nel momento della sua massima debolezza negoziale.

Per questo la Cgil va avanti con il suo appello già firmato da giuslavoristi come Luciano Gallino, Umberto Romagnoli, Massimo Paci, Tiziano Treu e giuristi come Massimo Luciani e Andrea Proto Pisani. E per questo, proprio lunedì della scorsa settimana una delegazione della sinistra guidata da Paolo Ferrero è salita al Quirinale, per chiedere al presidente della Repubblica di respingere l'ennesimo "schiaffo" ai diritti costituzionali.

Napolitano ha preso immediatamente a cuore la questione. Forse anche per queste ragioni il ministro del Welfare Sacconi si è affrettato a gettare acqua sul fuoco: "Il diritto sostanziale del lavoro, incluso l'articolo 18 dello Statuto, non è stato minimamente toccato". Per prevenire possibili censure di costituzionalità al provvedimento, e per "disarmare" l'offensiva di Epifani, il governo giovedì scorso ha anche raggiunto un "avviso comune" con gli altri sindacati, Cisl e Uil, e con la Confindustria: "Le parti - si legge nella dichiarazione congiunta - riconoscono l'utilità dell'arbitrato, scelto liberamente e in modo consapevole, in quanto strumento idoneo a garantire una soluzione tempestiva delle controversie in materia di lavoro a favore delle effettività, delle tutele e della certezza del diritto... e si impegnano a definire con tempestività un accordo interconfederale, escludendo che il ricorso delle parti alle clausole compromissorie poste al momento dell'assunzione possa riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro".

Il governo, insomma, ha cercato di giocare d'anticipo. Ma quanto vale un accordo "restrittivo" tra le categorie produttive (e neanche tutte), rispetto a una norma di legge che in linea teorica non pregiudica comunque il ricorso all'arbitrato, in aggiramento dell'articolo 18 e all'atto dell'assunzione? Questo è il dubbio, sul quale si sta esercitando il Colle nell'esame del testo della legge. Un dubbio che è largamente suffragato dai pareri di giuristi e dai costituzionalisti. Come Mario Dogliani, professore emerito di diritto costituzionale all'Università di Torino: "La legge presenta rischi evidentissimi. Se il lavoratore, al momento dell'assunzione, sceglie le modalità con cui il trattamento di fine rapporto verrà effettuato, è chiaro che la tutela legislativa viene svuotata. Il rapporto di lavoro è tutelato, in Italia, dalla legge in primis, quindi dalla legge di fronte a un giudice. Con le nuove norme si può escludere questo tipo di tutela. Mentre il giudice è un soggetto garantito dalla legge, l'arbitro applica principi di giustizia indipendentemente da ciò che stabilisce la legge".

O come Luigi Ferrajoli, docente di teoria generale del diritto all'Università Roma Tre: "Ci sono almeno due profili di incostituzionalità. Il primo è la violazione dell'articolo 24, che stabilisce "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". Si tratta di un diritto fondamentale, inalienabile e indisponibile, che la nuova legge viola palesemente, portando un colpo non solo all'articolo 18 ma all'intero diritto del lavoro. Il secondo profilo di incostituzionalità è contenuto nell'articolo 32 della legge, che vincola il giudice a un mero controllo formale sul "presupposto di legittimità" delle clausole generali e dei provvedimenti dei datori di lavoro, escludendone "il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro". Anche qui c'è una forte riduzione degli spazi della giurisdizione e quindi del diritto dei lavoratori alla tutela giudiziaria. È una chiara violazione, oltre che dell'articolo 24 della Costituzione, anche dell'articolo 101, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge". O ancora come Piergiovanni Alleva, docente di diritto del lavoro all'Università Politecnico delle Marche: "Certamente questa legge non è costituzionale". O infine come Tiziano Treu: "Nel settore privato un arbitrato senza regole affidate al singolo è contrario ai principi costituzionali di tutela del lavoro, connessi agli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione. Nel settore pubblico l'arbitrato libero viola l'articolo 97 della Costituzione, perché l'arbitro potrebbe decidere addirittura su assunzioni e promozioni, al di fuori delle regole del concorso pubblico".

Insomma, nel dossier allo studio del Quirinale le opinioni critiche dei giuristi sono tante, e tutte ben argomentate. E non manca, ovviamente, anche un'antologia della giurisprudenza costituzionale. Per esempio una sentenza della Consulta, la 232 del 6-10 giugno 1994: "Come in più occasioni stabilito da questa Corte (da ultimo sentenze n.206 e n. 49 del 1994) l'istituto dell'arbitrato non è costituzionalmente illegittimo, nel nostro ordinamento, esclusivamente nell'ipotesi in cui ad esso si ricorra per concorde volontà delle parti... In tutti gli altri casi... ci si pone in contrasto con l'articolo 102 primo comma della Costituzione, con connesso pregiudizio del diritto di difesa di cui all'articolo 24 della stessa Costituzione". Appunto: nel caso della legge appena approvata il problema è il seguente: se è vero che al momento dell'assunzione il consenso congiunto delle parti sulla via arbitrale ci sarebbe (ancorché condizionato dalla posizione di oggettiva debolezza del lavoratore) è legittimo trasformarlo in un'ipoteca sulle scelte future, precludendo per sempre al lavoratore la via giurisdizionale?

Questi sono i quesiti che potrebbero spingere Napolitano a decidere un rinvio della legge. Sul tema del lavoro, e della difesa dei lavoratori, il Capo dello Stato ha fatto sentire più volte la sua voce: "C'è ragione di essere seriamente preoccupati per l'occupazione, per le condizioni di chi lavora e di chi cerca lavoro... Mi sento perciò vicino ai lavoratori che temono per la loro sorte... così come ai giovani precari che vedono con allarme avvicinarsi la scadenza dei loro contratti, temendo di restare senza tutela. Parti sociali, governo e Parlamento dovranno farsi carico di questa drammatica urgenza, con misure efficaci ispirate a equità e solidarietà... Dalla crisi deve, e può uscire un'Italia più giusta... ". Il presidente l'aveva detto nel messaggio di auguri agli italiani, alla fine dello scorso anno. Il rovello giuridico e politico che lo tormenta, oggi, è proprio questo: la nuova legge sull'arbitrato rientra nelle "misure efficaci ispirate a equità e solidarietà" che lui stesso aveva auspicato? Ed è da norme come quella che può venir fuori "un'Italia più giusta"?. Questione di ore, e lo capiremo. Ma allo stato attuale il presidente una risposta sembra se la sia già data. E quella risposta è no.

m.giannini@repubblica.it

(15 marzo 2010)

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