La nascita del “Patto” raccontata in un libro dal figlio dell’ex sindaco di Palermo
Don Vito, la biografia di Vito Ciancimino scritta dal figlio Massimo e dal giornalista de La Stampa Francesco La Licata, appena uscito per Feltrinelli, arriva in libreria con un tempismo perfetto. Il processo al Generale Mario Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano è alle sue battute finali. Grazie alle deposizioni di Massimo Ciancimino (ancora da verificare) è stata ricostruita la trattativa tra Stato e mafia del 1992. Il generale ha sempre negato la ricostruzione di Ciancimino e la trattativa con Provenzano per ottenere la fine delle stragi (che invece continuarono) in cambio dell’accoglimento delle richieste della mafia. Nel libro c’è anche un affresco della mafia dall’interno e il racconto di come è cambiato il rapporto tra i boss e la politica dalla prima alla seconda repubblica. Ma è la trattativa il suo fulcro. Proprio ieri si è saputo che al figlio di don Vito sono stati spediti alcuni proiettili con una lettera piena di minacce. La parte del racconto che riportiamo è la versione di Ciancimino jr sull’inizio della trattativa. Il figlio del boss la data prima della strage di via D’Amelio. Una versione negata da Mario Mori. (M.L.)
Arrivarono in piazza di Spagna in un pomeriggio di un giorno successivo al 20 giugno 1992. (....) Li aspettavo per strada e li vidi giungere a piedi. Il colonnello (Mario Mori, allora carabiniere del Ros) indossava una polo rossa infilata dentro pantaloni leggeri. Li accompagnai in casa e li feci accomodare nel salone già opportunamente preparato: aria condizionata, musica e acqua fresca. Poi andai ad avvisare mio padre. “Ma com’è vestito il colonnello?” mi chiese. “Ha la giacca o no?” Quando seppe che indossava una normalissima polo, scelse l’abbigliamento conseguente: camicia di lino a maniche corte, occhiali senza la toppa come prescriveva la presenza di un ospite non confidenziale, borsa, matita e notes.
“Buongiorno colonnello.”
“È un piacere, grazie per averci ricevuto .” “Vorrei poter condividere questo piacere, ma forse è un po’ prematuro: Timeo Danaos et dona ferentes”. (...) Tanta aggressività nascondeva l’intento di intimidire i suoi interlocutori per poi porre la domanda cruciale: “Parliamoci chiaro, colonnello. Primo, nonostante le buone intenzioni del nostro amico capitano (Giuseppe De Don-no Ndr), vorrei sapere chi vi manda, fino a che punto siete accreditati perché, come ben potrà immaginare, non è la prima iniziativa di questo genere che conduco, ma potrebbe essere l’ultima, vista la delicatezza degli argomenti sul tavolo. (....). Non ho mai saputo il contenuto dei loro discorsi. Posso solo immaginare che mio padre ne sia uscito in qualche modo rassicurato. Probabilmente aveva ottenuto le risposte che cercava. Molti anni dopo, mentre raccoglievamo i ricordi per il libro, mi confermò di aver ricevuto assicurazioni sull’esistenza di una copertura all’iniziativa dei carabinieri. Fu proprio il signor Franco (un uomo legato ai servizi segreti, secondo Massimo Ciancimino Ndr) a dirgli che “ne sono al corrente gli onorevoli Rognoni e Mancino”. [I due politici hanno categoricamente smentito la circostanza.] Appena il signor Franco se ne andò, mi disse di prepararmi a partire l’indomani per Palermo e che mi avrebbe dato una busta da far avere ai familiari di Pino Lipari (braccio destro di Bernardo Provenzano Ndr). La missione contemplava anche un messaggio e un incontro con il dottor Cinà (altro uomo di Provenzano Ndr) nella sua abitazione di Mondello. (....) Tutto si svolse nell’ultima settimana di giugno del 1992. A Palermo incontrai due volte il medico Cinà e, proprio durante il secondo appuntamento, mi riconvocò per l’indomani alle 13 anticipandomi che mi avrebbe dovuto consegnare una lettera da far avere subito a mio padre. La notizia non mi riempì di gioia, perché andava a sconvolgere i piani già prestabiliti per il mio fine settimana, che doveva svolgersi a Panarea, come ogni anno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo, il 29 giugno. (...) Appuntamento all’ora dell’aperitivo davanti al bar Caflish di Mondello. Cinà non poté neppure parcheggiare a causa del gran traffico e mi diede al volo la busta chiusa destinata a mio padre. Mi raccomandò di fare presto e di salutarlo affettuosamente. Il giorno dopo consegnai a mio padre la lettera, che ora sappiamo conteneva il “papello”. Mi disse di poggiarla sul letto, tra le altre numerosissime carte che lo facevano somigliare a una scrivania ministeriale. Lo lasciai ai suoi riti e me ne andai al mare – dopo aver allertato, come da precise disposizioni, sia De Donno che il signor Franco. Mi recai a Fregene, col rimpianto nel cuore per l’altro mare che non avevo potuto raggiungere, quello di Panarea. (....)
Ne lessi il contenuto solo 10 anni dopo. Si trattava di ricostruire nei particolari gli avvenimenti del ’92 e allora gli chiesi cosa contenesse quel foglio. Mi guardò e fece un sorrisetto dei suoi, dicendo: “Prendi il III volume dell’Enciclopedia della Storia della Sicilia che sta nel salone”. Ne estrasse un foglio e me lo mostrò: dodici righe numerate, dodici punti; lo riconobbi subito, lo stesso che avevo intravisto, ecco il famigerato “papello”. (...) I punti del “papello” erano scritti a stampatello, non so se la grafia fosse quella di Riina. So per certo, però, che quel documento veniva da lui: 1) Revisione sentenza maxiprocesso; 2) Annullamento decreto legge 41 Bis; 3) Revisione legge Rognoni-La Torre; 4) Riforma legge pentiti; 5) Riconoscimento benefici dissociati Brigate Rosse per condannati di mafia; 6) Arresti domiciliari dopo 70 anni di età; 7) Chiusura supercarceri; 8) Carcerazione vicino le case dei familiari; 9) Niente censura posta familiari; 10) Misure prevenzione sequestro non familiari; 11) Arresto solo fragranza [sic] reato; 12) Levare tasse carburanti come Aosta.
A questo foglio era attaccato un post-it di colore giallo manoscritto da mio padre: “Consegnato, SPONTANEAMENTE, al Colonnello dei Carabinieri MARIO MORI dei R.O.S.”.
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