domenica 11 aprile 2010

EPPURE GLI INDUSTRIALI NON SONO SEMPRE STATI COSÌ


di Pierfranco Pellizzetti

Innanzi alla desolazione parmigiana di questo fine settimana - l’ennesima assise silente di Confindustria, con la sua platea passivizzata in clacque - si stenterebbe a credere che pure l’associazione di rappresentanza degli industriali conobbe un suo Sessantotto; che ci furono stagioni in cui un dibattito interno esisteva, si discuteva.

Però occorre andare a ritroso di ben quattro decenni (1970), alla mitica commissione presieduta da Leopoldo Pirelli per la riforma di un’organizzazione che ormai contava ben poco; sotto attacco nelle fabbriche (gli autunni caldi delle lotte operaie), marginalizzata dalla concorrenza di Intersind (il sindacato delle imprese partecipate dallo Stato) e ferita nell’immagine (all’epoca persino la stampa borghese parlava di “padroni”, non di “imprenditori”). La risposta alla sfida si tradusse in una duplice parola d’ordine: “uscire dai cancelli aziendali”, “democratizzare Confindustria”. Due soggetti associativi vennero individuati come propagandisti del nuovo, in controtendenza rispetto alla regola che strutturava i soci per territori e merceologie: il Gruppo Giovani (gli under 40, esistenti sulla carta già dal 1967) e quello di Piccola Industria. In particolare i Giovani, referente primario della presidenza senior di svolta con l’Avvocato Agnelli (1974 - 1976), divennero i guardiani del progetto “riformista” (e il futuro banchiere Enrico Salza fu il loro delegato ai lavori della “Pirelli”). In qualche misura vicini per età agli operai antagonisti e agli studenti contestatori, importavano nel palazzo fumé dell’EUR tematiche “liberalsocialiste”; se non “di sinistra”, certamente progressiste: partecipazione, alternanza, “alleanza dei produttori” (la parola d’ordine del blocco sociale industrialista “profitto e salario contro le rendite”).

Gli anni in cui gli Under lanciarono la moda degli incontri seminariali di riflessione: i convegni. E dato che i liguri erano una delle punte di lancia del Movimento, l’appuntamento annuale fu fissato nel Tigullio; prima a Rapallo, poi a Santa Margherita . Un porto franco di progettazione strategica e di dialogo con le controparti. Spesso in un gioco delle parti: i sindacalisti arrivavano in rigoroso tropical blu manageriale e i nuovi imprenditori si truccavano da proletari sbulinati. Comunque, un confronto che contribuiva alla rifondazione delle relazioni industriali italiane, culminato nello storico accordo sul punto unico di contingenza tra il presidente Agnelli e la trimurti sindacale dell’epoca (Lama-Storti-Vanni). Cosa resta di tutto ciò? Praticamente nulla. Uscita dall’isolamento, Confindustria è rapidamente rientrata nell’ordine vigente, privilegiando il richiamo degli status (l’appartenenza al patriziato economico degli abbienti) e accantonando le sovversive alleanze di ruolo (le affinità tra produttori). I Giovani hanno subito una mutazione genetica, già rivelata dalla dismissione delle tenute informali per più canoniche mises fighette (oggi il tre bottoni strizzato alla Tremonti). Il primaverile Santa Margherita dei temi di frontiera è virato a cassa di risonanza dell’ortodossia padronale, nel tormentone del reclamare mani libere e insieme sussidi, duplicandosi nell’autunnale incontro di Capri, tra il jet-set e la pommarola; clonando-si nella miriade di assise silenti di Confindustria.

Di fatto, l’unica sopravvivenza del progressismo confindustriale può essere individuata in un sottoprodotto della strombazzata democratizzazione pirelliana: la rotazione delle cariche. Regola che - come ci ricorda un osservatore molto informato come Alberto Statera - ha creato un certo qual numero di “professionisti dell’associazionismo industriale”. In altre parole, carrierismi individuali, che hanno ferito a morte le ragioni costitutive degli stessi Gruppi. Non a caso barattate proprio dai loro presidenti. Nello specifico, due svelti lombardi, poi premiati con l’ascesa alla presidenza dei Senior: il varesino Giorgio Fossa, presidente dei Piccoli, che liquidò la tradizionale posizione autonomistica (e una certa fronda nei confronti dei Grandi) baciando la pantofola dell’uomo forte di allora, Cesare Romiti; la mantovana Emma Marcegaglia, leader dei Giovani, rinunciando al ruolo critico in cambio della benevolenza della tecnostruttura, allora guidata da Innocenzo Cipolletta.

Risultato: oggi nel panorama della rappresentanza industriale non trovi una voce fuori dal coro che sia una. Non trovi una voce.

Si potrebbe pensare che progressismo facesse rima con gattopardismo, che - come direbbe il solito consulente di comunicazione - Confindustria non è né mai sarà proattiva, semmai reattiva: se non ci sono minacce all’orizzonte, gli imprenditori preferiscono presidiare i propri orticelli senza melanconie di sorta per cambiamenti e innovazioni.

Forse bisognerebbe ci si ricordasse davvero di un maestro molto citato nelle assise imprenditoriali: Luigi Einaudi. La sua tesi sulla bellezza della lotta, sul valore del conflitto sociale in un Paese narcotizzato.

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