di Marco Travaglio
A dimostrazione del fatto che di questo centrodestra non si riesce a pensare mai abbastanza male, perché la realtà supera sempre la più fervida fantasia, devo correggere la mia previsione di ieri: là dove scrivevo che finiani e leghisti potrebbero appoggiare una seria proposta di legge anticorruzione.
Levate pure i leghisti, ormai definitivamente perduti al seguito di Roma ladrona. In una psichedelica intervista al Corriere, il ministro dell’Interno Bobo Maroni ha infilato una serie di strafalcioni e corbellerie sulla giustizia da mettere in seria discussione la sua laurea in Legge: il noto giureconsulto varesino vuole abolire l’obbligatorietà dell’azione penale per consentire ai magistrati di concentrarsi sui “reati che davvero provocano allarme sociale”.
Già immaginiamo quali: scippi, piccolo spaccio, immigrazione clandestina, cose così (la resistenza a pubblico ufficiale è ovviamente esclusa, visto che Maroni è stato condannato in via definitiva per averla commessa avendo malmenato alcuni poliziotti, infatti fa il ministro della Polizia). Nemmeno una sillaba sul reato più socialmente allarmante, la corruzione, che secondo la Banca Mondiale e la Corte dei Conti si mangia ogni anno 50-60 miliardi di euro. Quanti scippatori devono mettersi all’opera, e quante borsette devono rubare in media al giorno, per racimolare un bottino equivalente? Non resta che sperare nei finiani, sempre a patto che qualcuno dall’opposizione si svegli e prenda l’iniziativa di presentare un testo. Non c’è bisogno di grandi sforzi di fantasia. Basta copiare dalla miriade di proposte e disegni di legge giacenti in Parlamento e ivi insabbiati da anni (ce n’è persino uno firmato da Mastella, che non è affatto male). Nei prossimi giorni Il Fatto metterà qualche idea semplice semplice a disposizione di eventuali oppositori disposti a raccoglierla e a tradurla in un testo. A cominciare da quella avanzata nel settembre del 1994, in piena Tangentopoli, dal pool Mani Pulite e da un gruppo di giuristi e docenti universitari (fra i quali l’attuale presidente dell’Unione Camere penali, Oreste Dominioni).
Era articolata in tre punti. Primo: non punibilità per il corruttore o il corrotto che va spontaneamente a confessare e a denunciare i complici, “prima che la notizia di reato sia stata iscritta a suo nome e comunque entro 3 mesi dalla commissione del fatto”. Sempreché restituisca il maltolto fino all’ultima lira. E con la sanzione automatica della decadenza e dell’interdizione dai pubblici uffici. In pratica, si rompe il vincolo di omertà fra corruttore e corrotto e si innesca una corsa a chi arriva prima a denunciare se stesso e l’altro per guadagnarsi l’impunità. L’obiettivo è quello di far emergere gran parte del sommerso di Tangentopoli, evitando ricatti e veleni. Secondo: i reati di corruzione e concussione diventano uno solo: è vietato offrire e dare soldi a un pubblico funzionario, non importa se costretti o spontaneamente, né in cambio di quale favore lecito o illecito. Terzo: linea dura con chi arriva fuori tempo massimo, o non confessa tutto, o viene colto con le mani nel sacco; custodia cautelare obbligatoria per corrotti e corruttori, come per i mafiosi, con pene che salgono da un minimo di 4 a un massimo di 12 anni per il pubblico ufficiale corrotto e da 3 a 8 per il corruttore privato (nessuna speranza di prescrizione).
Sedici anni fa la proposta suscitò reazioni entusiastiche da An e dalla Lega. Ignazio La Russa stuzzicò i forzisti perplessi: “Che il progetto Di Pietro potesse essere sconosciuto a Forza Italia mi sembra poco credibile, anzi resto convinto che i vertici ne fossero informati: vi han collaborato alcuni avvocati vicini a loro...” (per esempio Dominioni, allora difensore di Berlusconi). Maroni e Tremonti incontrarono i pm promotori e alla fine il primo parlò di “iniziativa interessante da discutere fra magistrati e governo”.
Che cos’è cambiato da allora a oggi, a parte il fatto che allora Tangentopoli ci costava 6-7 miliardi l’anno e oggi dieci volte tanto?
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