È intorno alla futura evoluzione della Lega che probabilmente si gioca la sorte del sistema politico italiano e dunque, in questo senso, anche dell’Italia. Tutto si riassume in una domanda decisiva: vorrà (e riuscirà) il partito di Bossi a trasformarsi in una forza in grado di elaborare una prospettiva non più solo «padana», ma nazionale? Lo spingerà il successo elettorale appena conseguito a pensare una strategia e un ruolo capaci di farsi carico del Paese intero? E quali?
Tali domande si pongono proprio mentre va sempre più chiarendosi il carattere effettivamente nuovo della Lega. Che può riassumersi in questi termini: la Lega rappresenta la prima cultura politica italiana di segno «basso», che non nasce cioè dall’elaborazione di un’élite. Non già per il suo richiamo al popolo. Infatti tutte le culture politiche dell’Italia moderna, dell’Italia del Novecento, hanno messo al proprio centro il «popolo». Ma lo hanno fatto per così dire «paternalisticamente» : era un’élite colta, per l’appunto, che assegnava alle masse popolari questo o quel compito storico di carattere generale (quasi sempre di riscatto sociale e/o nazionale) che la sua visione del mondo e del Paese le suggeriva. Per socialisti, cattolici, fascisti, comunisti il «popolo», in sostanza, ha sempre rappresentato uno strumento in vista di un fine più vasto e più alto: anche se naturalmente tale fine doveva tornare a beneficio innanzi tutto dello strumento stesso.
Con la Lega questa storia del Novecento politico italiano finisce per sempre. Con la Lega, infatti, abbiamo un gruppo dirigente fatto della stessa identica pasta culturale e antropologica del suo elettorato, un gruppo dirigente che ha gusti, modi di vita, ragiona e parla come il suo «popolo». Il quale non è investito di alcun ruolo storico generale. A qualsivoglia più o meno verosimile prospettiva nazionale (o addirittura mondiale, com’era in fondo per cattolici e comunisti) esso antepone molto banalmente le sue specifiche esigenze di collettività che abita in un certo posto, che vive qui ed ora, che ha determinati problemi economici e non altri.
Ma è tenibile questa impostazione di così basso profilo, diciamo, così territorialmente ancorata e circoscritta, quando si supera un certo livello di espansione elettorale, quando si diventa, come la Lega oggi si appresta forse a diventare, una forza importante in regioni diverse ed eterogenee, dunque almeno in prospettiva in tutta la Penisola? La Lega pensa che la risposta a questa domanda sia il federalismo, che possa essere questo la sua ricetta generale per il Paese.
Ma non tiene conto di due ostacoli. Il primo sta nel fatto che, come ha più volte osservato Luca Ricolfi, il federalismo, fiscalmente inteso, significherebbe una perdita secca e immediata di risorse per almeno la metà della Penisola, diciamo da Roma in giù. Il secondo ostacolo, molto più grave, è nella pessima prova che dall’inizio sta dando l’istituto regionale. Le Regioni sono state una gigantesca, costosissima delusione, questa è la verità. Comprensibilmente la classe politica, tutta quanta, preferisce non parlarne; ma l’opinione pubblica ne è sempre più convinta, e prima o poi il nodo arriverà al pettine.
È proponibile, allora, la ricetta federalista con il sempre più largo discredito di cui godono quelle che ne dovrebbero essere le protagoniste? E con i danni economici che ne deriverebbero per tanti italiani? Dunque è altrove che la Lega dovrebbe guardare per proiettarsi in una dimensione nazionale. Per esempio lungo la via indicata da Maroni che come ministro degli Interni sta conducendo una repressione delle grandi organizzazioni criminali straordinariamente efficace.
C’è di sicuro qualcosa di paradossale nel fatto che spetti oggi proprio ad un ministro leghista il merito di una politica forte volta a ristabilire l’autorità dello Stato italiano e delle sue leggi. Ma forse è un paradosso che contiene un significato profondo. Forse, infatti, è proprio una classe politica così popolarmente empirica e culturalmente antistatalista come quella della Lega che domani potrebbe assegnarsi il compito ambizioso di quella riforma dello Stato, delle sue amministrazioni e delle sue regole, che da decenni è all’ordine del giorno ma che non si è mai vista. Al di là di ogni ubbia federalista, ecco materia per un grande programma politico che tutto il Paese aspetta e di cui domani il partito di Bossi potrebbe farsi credibile banditore.
Ernesto Galli della Loggia
04 aprile 2010
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