mercoledì 19 maggio 2010

19/5/2010 - LA STORIA E' depresso, scarcerato il boss mafioso


FRANCESCO LA LICATA

Il carcere, lo sanno tutti, non è un luogo di villeggiatura. Lo sanno meglio di chiunque altro i mafiosi che, infatti, quando finiscono in cella accentuano il loro asserito «spirito di sacrificio» commiserandosi con l’autoesaltazione che l’«uomo d’onore è nato per soffrire».

Eppure è una costante della storia di Cosa Nostra e il sistematico tentativo del detenuto di mafia di rendere, in qualunque modo, la detenzione più sopportabile. Un’altra costante della strategia «anti stress carcerario» è quella di far ricorso ai tribunali di sorveglianza più distanti dalla realtà mafiosa per ottenere il massimo proprio da questa, diciamo, distanza ambientale. Non per nulla negli Anni Sessanta e Settanta venivano sistematicamente ricusate le corti siciliane col chiaro intento di far celebrare i processi nei distretti giudiziari dove la mafia non sapevano cosa fosse. I risultati erano le assoluzioni per insufficienza di prove a Lecce o a Catanzaro o a Bari.

Oggi forse l’automatismo non è più così scontato, anche se - come nel caso dell’ergastolano Salvatore Vitale, mandato a casa perché depresso e dunque incompatibile col carcere - altro epilogo forse avrebbe avuto il suo iter giudiziario in un tribunale siciliano. Ma Vitale era detenuto a Voghera, e così spettava a Pavia decidere sulla sua depressione da ergastolo. La decisione è stata formalmente e tecnicamente inappuntabile, visto che il magistrato ha applicato una fattispecie che risponde al nome di differimento della pena per motivi di salute. Ma basta l’ineccepibilità della forma per zittire la voce che dentro di noi protesta nel vedere ergastolano a casa proprio uno degli assassini del piccolo Giuseppe Di Matteo? Certo sarà pure vero che Vitale si senta depresso, chiuso fra quattro pareti. Ma la madre del piccolo Giuseppe? Forse avrà vissuto qualche punta di depressione in più, costretta a sfogarsi nella solitudine di una casa divisa con l’altro figlio, il sopravvissuto che le ricorda ogni santo giorno quello che non c’è più. Il ricordo del figlio perduto, non è anch’esso un ergastolo senza fine?

Sappiamo quanto possa pesare, il carcere. Abbiamo visto uomini di potere smagrirsi e sfiorare l’autismo per il passaggio repentino dall’ebbrezza del successo allo stato di detenuti senza più identità. Ma conosciamo anche le devastazioni provocate dalla perdita dei famigliari, di persone care, di un amico. Tornano alla mente immagini come quella della vedova Schifani che, con voce flebile e le gambe molli, sorretta da un prete, invoca giustizia. Questa gente ha diritto al risarcimento.

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