LA CORTE D’APPELLO HA ASSOLTO CALÒ, DIOTALLEVI E CARBONI. LA PRESCRIZIONE SCATTA TRA DUE ANNI
di Rita Di Giovacchino
Un omicidio destinato a restare per sempre senza colpevoli quello di Roberto Calvi, l'ex presidente dell'Ambrosiano trovato impiccato all'alba del 22 giugno 1982 sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Mancano ancora due anni per la prescrizione del reato, ma la sentenza emessa ieri dalla prima Corte d'Assise d'appello - che ha mandato assolti Pippo Calò, Ernesto Diotallevi e Flavio Carboni - è quasi una pietra tombale sulla possibilità di fare luce sul groviglio di misteri legati a questa morte che ha per anni intossicato la vita politica italiana. E forse pesa ancora su oscuri equilibri di potere. Il faccendiere Flavio Carboni - il cui nome nuovamente ricorre sui giornali quale funambolo di nuove cordate imprenditoriali - contrariamente a quanto annunciato non era in aula. L'instancabile brasseur d'affari, che pilotò Berlusconi in Sardegna all'inizio della sua avventura economica e che incontriamo ora al fianco di Denis Verdini, può tranquillamente tornare ai grandiosi progetti sull'eolico. Non è l'assassino dell'ex presidente dell'Ambrosiano. E neppure Pippo Calò, l'ex cassiere della mafia, è mai stato il mandante di un delitto ordinato da Cosa Nostra teso a rivendicare le centinaia di miliardi mafiosi inghiottiti dal crack dell'Ambrosiano. Questa almeno la tesi del pm Luca Tescaroli, che aveva chiesto tre ergastoli e ha incassato invece per la seconda volta una dura sconfitta. Ma la sentenza assolutoria era assolutamente prevista, il caso Calvi è la summa di troppi misteri. Sussurra Tescaroli: “Non è stato inutile questo processo, siamo riusciti a dimostrare che Calvi non si è suicidato, ma è stato ucciso”. Ucciso ma non sappiamo da chi. “La sentenza conferma il verdetto di primo grado, nei confronti dei tre imputati ci sono soltanto indizi. Dobbiamo rispettare le sentenze” ammette rassegnato il pm che deciderà di fare ricorso quando saranno note le motivazioni. Poco prima, quando il presidente della Corte Guido Catenacci ha letto il dispositivo, dai banchi si è levato un gran sospiro di sollievo. Proveniva da un gruppo di persone che circondava l'unico imputato presente, Ernesto Diotallevi, un'altra ombra del passato. Se non fosse stato per questo processo, di lui non avremmo mai più saputo niente. Sarebbe scomparso per sempre nel silenzio di misteriose attività imprenditoriali che lo hanno reso in questi anni ricchissimo e intoccabile all'ombra del Vaticano o almeno di quella “santa cricca” attiva ieri come oggi. Nuovamente assolto, l'ex amico di Danilo Abbruciati ed Ernesto Diotallevi, tornerà ai suoi affari e a querelare chiunque parli dei suoi esordi nella Banda della Magliana, della sua amicizia con Pippo Calò che in quel periodo si faceva chiamare Mario Aglialoro.
“Non ho mai conosciuto Pippo Calò, avevo rapporti d'affari con il ragionier Aglialoro”, è stata la vincente autodifesa di Carboni. Il faccendiere ha un buon ricordo del mafioso, meno buono di Diotallevi: “Tutti i miei guai sono cominciati quando l'ho conosciuto, mi ha fregato la casa a Fontana di Trevi, mi ha cacciato in questo pasticcio. E i magistrati insistono nel sostenere che è un mio complice”. Diavolo di un faccendiere dalle mille vite, molti anni prima di Anemone e Balducci era lui che distribuiva case come noccioline. Da Villa Certosa al palazzetto di Fontana di Trevi. Ma il processo Calvi è finito, andate in pace.
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