FERROVIE DELLO STATO CONTRO CHIARELETTERE E GATTI: IL GIUDICE DOVRÀ RIEMPIRE NORME “IN BIANCO”
Ieri Il Fatto ha raccontato della richiesta di risarcimento danni, per 26 milioni di euro, avanzata da Ferrovie dello Stato nei confronti del giornalista Claudio Gatti e dell’editrice Chiarelettere. Oggi sul caso interviene l’avvocato Oreste Flamminii Minuto
di Oreste Flamminii Minuto
Una richiesta di risarcimento di 20 milioni euro non è uno scherzo, né tantomeno un’esagerazione. Il nostro ordinamento giuridico permette che vengano fatte queste richieste, che appaiono oggettivamente “esose”, anche perché lo stesso ordinamento garantisce che su queste richieste vi sia la protezione - per così dire - della magistratura.
Il nostro sistema è affidato a un giudice che non risiede solo a Berlino. Non è quindi vero che una richiesta esosa sia di per sé una minaccia e non lo è evidentemente quella effettuata dalle Ferrovie dello Stato e Trenitalia dal loro amministratore delegato Ing. Mauro Moretti. Oltretutto il patrocinio del professor Romano Vaccarella, ex giudice costituzionale e valente avvocato esperto in diritto dell’Informazione, toglie ogni dubbio sul carattere “minaccioso” dell’atto di citazione notificato all’Editore di Chiarelettere e all’autore del libro “Fuori orario” Claudio Gatti.
Da vecchio frequentatore del diritto dell’Informazione, tuttavia, credo di poter fare qualche osservazione di carattere “politico” sulla citazione che ho molto sommariamente letto. Mi è sembrato innanzitutto che una richiesta di risarcimento di 26 milioni di euro, pur non essendo oggettivamente minatoria, non possa non turbare comunque un autore, un giornalista, un editore o un cittadino qualsiasi. L’effetto percepito è sicuramente poco rassicurante e la semplice richiesta viene vissuta come minaccia per una futura attività. In secondo luogo, i “beni giuridici” che si sostiene siano stati lesi (reputazione, onore, dignità, immagine, identità) vengono valutati da un giudice che, pur non essendo lontano da Berlino, tuttavia è condizionato dalla mancanza di parametri oggettivi per riempire norme cosiddette “in bianco”.
La valutazione della lesione e la quantificazione del danno dipendono, infatti, dalla sua cultura che in questo settore non è certo “progressista”. Basti pensare che ci sono voluti 60 anni perché la Corte di Cassazione stabilisse che l’intervistatore non poteva essere accomunato al destino dell’intervistato se quest’ultimo, persona pubblica, avesse riferito opinioni sul terzo che si fosse sentito diffamato.
Infine, la lettura dell’atto di citazione mi ha per l’ennesima volta fatto riflettere sulle richieste di risarcimento e sulle querele in materia di Informazione. Come mai in quasi 60 anni di professione non mi è mai capitata una richiesta di risarcimento alla simbolica “Lire Una” (oggi Euro Uno)? E come mai non mi è ugualmente mai capitato che si facesse ricorso, invece che all’Autorità giudiziaria, al Giurì d’onore, previsto anche dal nostro codice penale che in soli tre mesi (prorogabili di altri tre) deve emettere la sua pronuncia? Io una risposta ce l’avrei. Ma me la tengo per me. Non vorrei sentirmi minacciato da una richiesta, sia pure infondata, di risarcimento danni.
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