mercoledì 12 maggio 2010

DAVID LANE “MAFIA, L’ITALIA SI È ARRESA”


Il corrispondente dell’Economist: “È la politica che lo ha deciso”

di Silvia Truzzi

Pizzo, pizzi e pizzini. Rifiuti sotto cieli che sembrano davvero dipinti. I bronzi di Riace, la Reggia di Caserta, le colline di Sicilia. Ma è una bellezza che non acceca: la mafia si vede a occhio nudo. David Lane, corrispondente dell’Economist, in Italia da più di trent’anni ha fatto il suo Grand tour nella tana del lupo. “Terre profanate”, edito da Laterza, è un taccuino di viaggio, guida per nulla turistica al Mezzogiorno d’Italia.

Lane, come nasce questo pellegrinaggio dentro la mafia?

Nel libro su Berlusconi “L’ombra del potere”, che qui è uscito nel 2005, ci sono capitoli sulla complicità tra il potere politico e la mafia. Così ho pensato: scrivo un libro sulla criminalità al Sud. Volevo che avesse un taglio giornalistico. Poi il mio editore londinese mi ha detto: perché non fai un libro di viaggi?

Un viaggio in Italia, come Goethe?

Io scrivo da trent'anni in modo impersonale. In questo viaggio ho raccontato la mia esperienza che inizia da Gela - più vicina all’Africa che a Roma - e finisce a Teano, davanti al monumento che ricorda l'incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele nel 1865.

Si è chiesto perché la mafia non è stata debellata?

Non c'è mai stata la volontà politica. Non c’è nemmeno oggi. Per questo mancano le risorse: per le indagini, per la benzina della polizia, per assicurare organici sufficienti. Ma basta guardare le leggi che vengono approvate o proposte: si capisce come potrà andare in futuro.

Quello che lo Stato può o non può fare si è visto con le Br.

Certo, allora lo Stato dimostrò che i brigatisti si potevano sconfiggere, ed è stato certamente meglio così. Ma il terrorismo non conosceva questo intreccio con la politica e con gli affari, che tutte le mafie invece hanno. Però la mafia è parte integrante della società italiana.

Ci sono state polemiche sulla “comunicazione” dei fenomeni criminali. Berlusconi dice che libri come “Gomorra” non fanno fare bella figura all’Italia. Qual è la sua impressione da giornalista?

Il lavoro del giornalista è quello di riportare fatti, positivi o negativi. Se ci sono infiltrazioni della camorra nel Casertano o nel Napoletano queste cose devono essere pubblicate. Perché tocca allo Stato debellare la criminalità, così i cronisti non avranno più niente da scrivere.

È un consiglio al governo?

La libertà di stampa è scrivere le cose come stanno. Cose che magari danno fastidio a certe persone. Ma questo non è importante, non deve esserlo.

Lei vive in Italia dagli anni 70. C’è stato un imbarbarimento nel rapporto tra la stampa e il potere?

Credo di sì. Ho appena seguito la campagna elettorale in Gran Bretagna. Guardando i dibattiti televisivi pensavo: “In Italia non potrebbe accadere”. Questo tipo di confronto tra stampa e politica, tra pubblico e politica. I vostri politici chiederebbero alle loro scorte di arrestare le persone che contestano. Ma è compito del giornalista fare domande imbarazzanti.

Il guaio è che si fa fatica anche a a chiedere conto di ciò che chi ci amministra fa in nostra vece.

Se l’economia va male o se si tagliano fondi allo stato sociale, i cittadini hanno diritto di chiedere conto. I giornalisti invece hanno il dovere di farlo.

Perché i giornalisti italiani non lo fanno?

Perché hanno paura del potere, perché i compromessi sono frequenti.

Dell’Utri ha detto: se mi assolvono lascio la politica. Non dovrebbe essere il contrario?

Non è normale. Ma non è normale nemmeno che il Presidente del consiglio si rifiuti di rispondere ai magistrati quando lo vogliono interrogare. In un altro Paese sarebbe escluso dalla politica, anzi dalla vita pubblica: fuori, subito.

L’Economist ha attaccato, e non di rado, Berlusconi. Lui vi tratta come se foste “Lotta comunista”, ma il vostro è un giornale liberale e di destra. Però nessuno si domanda perché scrivete certe cose.

Ricordo bene quella copertina del 2001 con la fotografia del premier e il titolo: “Perché Silvio Berlusconi è inadatto a guidare l’Italia”. Questi nove anni hanno dimostrato la verità di quelle parole. Per fortuna i libri rimangono, molto più degli articoli di giornale. Il mio libro su Berlusconi è stato il primo in inglese sul vostro presidente del consiglio: resterà. E anche questo sulla criminalità al Sud.

Che differenza passa tra le mafie del Mezzogiorno?

Quella della Calabria è la più difficile da sconfiggere: è ben radicata, legata alla famiglia di sangue. La mafia siciliana ha avuto degli sconfitti e di questo soffre.

La mafia si vede?

A Reggio Calabria nelle vetrine di un fast food bucate dai proiettili. E un cartello: “Chiuso per ferie”. In Calabria, in uno stabilimento di gomme incendiato dalla malavita. Ero a Napoli in piena emergenza rifiuti: non c’era solo malgoverno, c’erano anche gli interessi della camorra.

Crede che i cittadini del Sud si siano abituati a certe “leggi illegali”, come il pizzo? O è la paura che non li fa reagire?

Ambedue. Un uomo d’affari in Calabria mi ha minacciato dicendomi che aveva già querelato altri giornalisti. E io ho risposto: non è che mi importi tanto, sono stato querelato dal Presidente del consiglio (in primo grado il premier ha perso, ndr). Nella piana di Gioia Tauro invece ho incontrato due commercianti che vent’ anni fa hanno denunciato persone che chiedevano il pizzo. Ci vuole molto coraggio per denunciare il racket. Ma esempi ci sono.

Quali?

Penso ai ragazzi che lavorano le terre confiscate alla mafia e incontrano molti problemi. Anche perché non ci sono aiuti da parte dello Stato.

L’Italia si è arresa alle mafie?

Sì, perché fanno ormai parte della società.

L’ultimo capitolo s’intitola: “Roma. Chiesa e Stato”. Che c’entra?

La sconfitta della mafia dipende da Roma. E dalla Chiesa, che forse ha perso un po’ del potere che aveva. Ma un tempo aveva influenza su come la gente pensava e si comportava. Allora avrebbe potuto combattere pubblicamente la mafia. La Chiesa è ambigua: ci sono preti che chiamano i pentiti Giuda, preti per cui è più importante confessare il criminale e riportarlo dentro la Chiesa che proteggere chi ne è vittima. Poi, certo, oggi ci sono anche molti sacerdoti che s’impegnano contro la mafia.

La sua conclusione in realtà è una domanda: che speranza c’è?

Se non c’è sviluppo, purtroppo non c’è speranza. Perché dovrebbe esserci sviluppo quando c’è la mafia? Non c’è motivo per le imprese straniere o del Nord di andare nel Mezzogiorno. Mi chiedo dove andranno i giovani del Sud. Che hanno energia e entusiasmo perché sono giovani, ma non hanno possibilità di lavorare. E quindi di scegliere.

1 commento:

Janas ha detto...

Politica - criminalità organizzata : un connubio forte, necessario.
C'è una politica delle criminalità...
e c'è una mafia della politica...

In breve, cade bene col mio ultimo post, nel quale ipotizzo complotti nel generare paure collettive.
La mafia, la camorra giocano con le nostre paure: un popolo impaurito ed ignorante è più facile da gestire.