Sindacati, stampa, associazioni chiedono un gesto politico concreto
di Silvia D’Onghia
Le immagini dei poliziotti che fermano un ragazzo a bordo di un motorino e si accaniscono contro di lui hanno fatto il giro di tutti i telegiornali e di tutti i siti. Così come accadde, nove anni fa, con quelle del G8 di Genova; così come è accaduto, nell’ottobre scorso, dopo la morte di Stefano Cucchi. La divisa violenta non è, purtroppo, uno spettacolo inusuale nel nostro Paese. Bisogna capire se si può parlare ancora, soltanto, di “mele marce” o se l’abuso della forza sia diventato uno strumento di “contrasto” al crimine.
“Dalla prima conferenza stampa che facemmo insieme a Ilaria Cucchi – racconta il presidente dell’associazione “A buon diritto”, Luigi Manconi – registriamo ogni mese tre o quattro segnalazioni di illegalità per mano delle forze dell’ordine (non certo solo in carcere). Noi le valutiamo con attenzione, alcune le archiviamo, altre le denunciamo. E noi siamo solo uno degli osservatori presenti in Italia”. Le denunce arrivano da cittadini che, nella propria vita quotidiana, incontrano le divise, e non necessariamente perchè si sono macchiati di qualche reato. “Molto spesso – prosegue Manconi – si tratta di atti di devianza, come l’ubriachezza, che dovrebbero essere soltanto sanzionati con una contravvenzione, e che invece si trasformano in resistenza a pubblico ufficiale. Da qui il trasporto in caserma o in commissariato e gli episodi di abusi che registriamo”.
“Si sono venuti a creare dei “mostri” – spiega il segretario dei Radicali, Mario Staderini – gli ultras, i drogati, gli immigrati. E’ dal 2001, per esempio, che si è criminalizzato il tifoso. Chi va allo stadio non è per forza un ultras, ma essere percepiti in maniera negativa fa modificare anche il proprio stato d’animo. È stato consentito che la moneta cattiva cacciasse quella buona”.
Tra i poliziotti gira una poesia (sul proprio status), che in un passaggio recita: “Se siete voi a colpirlo per primo... è un vigliacco! Se è lui a colpirvi... è considerato un violento!”. La percezione cambia a seconda della posizione in cui ci si trova. Uno dei problemi veri, al di là delle inclinazioni personali, si chiama “formazione”. Basti pensare che “a gestire situazioni potenzialmente a rischio, come la finale di Coppa Italia della scorsa settimana, vengono mandati non solo agenti dei reparti mobili, ma anche dipendenti che normalmente hanno altre funzioni, dall’investigativo all’amministrativo”: a dirlo è il segretario generale del Sap, uno dei più rappresentativi (e tendenzialmente di destra) sindacati di polizia. La svolta nella formazione del personale addetto all’ordine pubblico - a detta di tutti - è arrivata con la scuola di Nettuno (vicino Roma), fortemente voluta dal capo della polizia Manganelli. “Ai giovani viene insegnato come distinguere chi si ha di fronte – sottolinea il segretario generale del Silp Cgil, Claudio Giardullo – devono imparare a decidere in tempi rapidissimi e a controllare le proprie reazioni”. “Il poliziotto deve prendere in un secondo decisioni che a un avvocato richiederebbero un mese”, si legge nella poesia. Ma le risorse investite in questo ambito sono state drammaticamente tagliate ad ogni finanziaria. Guai, però, per i sindacati, a parlare di fenomeno diffuso: tutti ripetono che sono episodi isolati. Come le “mele marce” che hanno ricattato l’ex governatore del Lazio, Marrazzo. “Generalizzare sarebbe un errore”, puntualizza Giardullo. “Il nostro ambiente punisce certi atteggiamenti – chiosa Tanzi – con provvedimenti disciplinari, trasferimenti, sospensioni e licenziamenti. Le responsabilità penali sono personali”. È vero, lo dice l’articolo 27 della nostra Costituzione. A volte, però, si ha la sensazione che indossare una divisa renda più liberi da certi vincoli. Nessuno parla con nome e cognome, ma alcuni poliziotti e carabinieri raccontano di aver assistito personalmente, e più volte, a calci e schiaffi affibbiati nelle caserme.
Il secondo problema, forse ancora più grosso, è allora “politico”. “Da parte dei titolari politici di quegli apparati dello Stato – sostiene Manconi – non c’è alcuna strategia di dissuasione e disincentivazione della violenza. Pochi giorni dopo la morte di Cucchi, il ministro della Difesa La Russa proclamò che l’onore dell’Arma non era in discussione. Fu una dichiarazione quanto meno intempestiva. L’esercizio irresponsabile della violenza, se è vero che non è sollecitato, non è comunque contrastato”.
Ieri a chiedere un intervento del ministro Maroni e una riflessione su quanto accaduto è stato anche il Secolo: l’immagine di un ragazzo picchiato “non piace a nessuno, nemmeno all’opinione pubblica più stressata dagli allarmi securitari di ogni genere”. E’ la stessa richiesta che avanzano i sindacati di polizia.
Terzo problema, non da poco, è la cosiddetta “emergenza, divenuta uno strumento di governo ordinario del Paese – conclude Manconi – In questa situazione, una manifestazione, un gruppo di ubriachi, due tossicodipendenti diventano occasione di panico sociale. Chi deve gestire l’ordine pubblico, lo fa non come attività di controllo e contenimento, ma come se si trattasse di una ‘guerra civile simulata eppure cruenta’. Quello che appare di fronte alle forze dell’ordine diventa il ‘guerrigliero urbano’, e questo fa vivere in un costante stato di ansia, una sorta di allarme permanente che degenera in violenza”.
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