martedì 11 maggio 2010

Il gattopardo, la fata cattiva e il supplizio inflitto al Belice


Nulla più della Chiesa Madre di Gibellina rende l’idea del supplizio inflitto al Belice. L’hanno inaugurata il 28 marzo 2010, quarantadue anni dopo il terremoto. Ma solo perché il sindaco Vito Bonanno è ricorso a uno stratagemma per trovare i pochi soldi che mancavano: l’ha fatta dichiarare ufficialmente «opera di interesse artistico». Così la Regione ha tirato fuori un po’ di denari: trecentomila euro. Meno della metà di quanto spendono nei piani alti di Palazzo dei Normanni per abbonamenti alle agenzie di stampa e ai giornali online. Ci credereste? C’è voluta l’ostinazione di un sindaco che quando Gibellina tutta intera collassò non era neppure stato concepito. Aveva un anno appena quando l’architetto Ludovico Quaroni progettò la chiesa, con la sua enorme «sfera metafisica». Andava per i sedici quel giorno del 1985 in cui i lavori cominciarono. Ne aveva venticinque il 13 agosto del 1994 in cui la copertura della Chiesa, costata cinque miliardi, crollò. Inchieste, controinchieste, perizie. Otto anni per riaprire il cantiere e altri otto per chiuderlo: grazie a un’elemosina. Così, a quarant’anni suonati, il sindaco Bonanno ha potuto tagliare il nastro. Uno scandalo nello scandalo. Il dispetto della «fata cattiva» che ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva accompagnato 150 anni fa, in quei paesi della Sicilia occidentale, il plebiscito per l’annessione all’Italia di Vittorio Emanuele. A Santa Margherita di Belice il terremoto del ’68 non risparmiò nemmeno la casa, del Gattopardo. In una delle memorabili cronache pubblicate in quei terribili giorni dal Corriere, Giovanni Russo fece vedere la polvere antica delle macerie: «Il Palazzo dei Filangieri di Cutò, il palazzo nel quale Tomasi di Lampedusa ha ambientato il Gattopardo, è rovinato con le povere case di tufo di migliaia di contadini, le stesse del tempo in cui il principe Francesco Salina vide arrivare i garibaldini e assistette alla fine del suo regno». Solo la facciata era rimasta in piedi. Ma il resto era un cumulo di mattoncini Lego colorati. Gli ambienti dove il bisnonno di Tomasi, alias Principe di Salina, aveva davvero passato la vita, erano stati spazzati via in un solo istante, Insieme ai ricordi del Gattopardo: «Salì la scala interna, passò per il salone degli arazzi, per quello azzurro, per quello giallo; le persiane abbassate filtravano la luce, nel suo studio la pendola di Boulle batteva sommessa…».

Il palazzo lo rimisero in sesto. Ma nel paese di Tomasi due generazioni hanno vissuto nelle lamiere. Le ultime baracche sono state smantellate nel 2007, senza risparmiare l’ennesimo sfregio a quella terra martoriata. I tetti delle baracche erano fatti di amianto e ciò che è rimasto quando le hanno smontate assomigliava a una landa devastata da un bombardamento chimico, con milioni di invisibili frammenti cancerogeni. Sarebbe necessaria una bonifica radicale, ma intanto bisognerebbe completare lo smaltimento dei pezzi e delle schegge d’amianto: se ci fosse una discarica. L’unica esistente in Sicilia, a Catania, è in esaurimento. Così non resta che spedire i veleni verso la Germania. Con costi stratosferici che rallentano la bonifica. Come se non bastasse, nel cratere della ricostruzione ci sono ancora interi quartieri senza fogne, che scaricano i liquami nei pozzi neri e strade di terra battuta, senza lampioni. Da non credere. Tutto per via di una vecchia legge del 1987, che diede ai comuni il potere sulla ricostruzione delle abitazione, ma senza dire nulla sulle cosiddette opere di «urbanizzazione primaria ». È stato calcolato dai sindaci dei 21 comuni della valle del Belice che sarebbero necessari almeno 140 milioni per quel capitolo. Ammesso che bastino. Poi servirebbero ancora 230 milioni per completare la ricostruzione delle abitazioni. Ammesso che bastino anche quelli. In tutto 370 milioni. Meno di quanto si è speso per le opere del G8 della Maddalena finite nelle fauci di Anemone & co. Ma per chiudere questa pagina vergognosa i soldi non si trovano. «Cinque milioni l’anno, ci vogliono dare. Sa che le dico? Che se li tengano», ringhia il sindaco di Gibellina.

Eppure pareva che di quattrini ne fossero piovuti a secchiate. Nel 1996 il primo governo di Romano Prodi tirò le somme: al Belice era arrivato in 28 anni l’equivalente, attualizzato, di 12 mila miliardi di lire. Neanche metà di quanto era stato destinato al Friuli. Ma che fossero pochi non si può proprio dire: i comuni del Belice colpiti dal sisma erano 21 e quelli del Friuli 137, sette volte più numerosi. Si parlava, all’epoca, di 650 milioni di lire per ogni famiglia terremotata. Peccato che all’inizio, cioè quando servivano, fisicamente arrivarono con il contagocce. E non sempre dove ce n’era davvero bisogno. Colpa della «fata cattiva»... Passi per la stella esoterica di Pietro Consagra, un monumento alto 25 metri che accoglie il visitatore sulla strada d’accesso a Gibellina Nuova. Passi per il colossale aratro di Arnaldo Pomodoro, la torre civica a forma di ala di jet dell’architetto Alessandro Mendini, la scultura metallica «Contrappunto» di Fausto Melotti. Passi anche per la scelta di seppellire l’antica Gibellina sotto il Cretto del grande Alberto Burri, l’immenso sepolcro di cemento che oggi custodisce le macerie di un paese che all’inviato del Corriere Egisto Corradi, uno dei primi arrivati lì dopo il terremoto, apparve come fosse «stato schiacciato da un gigantesco maglio di pietra». Può darsi che davvero non sembrasse possibile altra scelta, quarant’anni fa, che quella di spostare più a valle di chilometri e chilometri il paese sorto prima dei Greci, poi arabo, poi medievale. In fondo, c’erano già dei precedenti storici. Come quello di Giuseppe Lanza duca di Camastra, il quale dopo il disastroso terremoto del 1693 aveva spostato di otto chilometri Noto.

Fu una scelta culturalmente coraggiosa, quella di riempire Gibellina Nuova con le opere (talora stravaganti) di alcuni dei nostri più rinomati architetti e artisti. Ma è proprio assurdo e offensivo verso l’arte chiedersi oggi se quell’operazione aveva senso? Era più importante dare spazio alla fantasia di alcune grandi «firme » come Francesco Purini che disegnò un favoloso «Sistema di piazze» a dimensione di genio destinato a restare vuoto per l’eternità o ricreare una piazza a dimensione di uomo dove la gente strappata al vecchio paese distrutto, devastata dai lutti, annientata nella memoria, potesse trovare un caffè, un angolo alberato, un circolo anziani, un qualcosa dove tentare di ritrovarsi? Prima di investire in grandi e a volte ciclopiche opere d’arte esposte e case rotonde a rischi di degrado e incuria non sarebbe stato meglio pensare alle strade, alle fogne, ai lampioni che ancora oggi mancano? Per non parlare degli abusi in tutta l’area terremotata. Nel 2004 l’ex sindaco di Salemi, Biagio Mastrantoni, denunciò che diversi residenti avevano aperto cantieri fantasma pur di intascare i fondi per il terremoto. Chi aveva comprato la fuoriserie, chi era andato in vacanza alle Maldive… Tre anni più tardi Accursio Soldano riferì su Repubblica il fondato sospetto che molti destinatari dei contributi per la ricostruzione avessero impiegato quei soldi per farsi la villetta al mare. E nell’estate del 2009 il nuovo sindaco di Salemi, Vittorio Sgarbi, è arrivato a sospendere tutti i finanziamenti: «I contributi dello Stato sono stati erogati in modo fraudolento, con l’alibi della messa in sicurezza sono stati demoliti edifici intatti nel centro storico!». Tra i quali quello che, per lui, era «il più bel palazzo della cittadina». Il risultato è che a 42 anni dal terremoto nessuno è in grado di dire quando e se la ricostruzione della Valle del Belice sarà davvero finita. Il conto? Nemmeno su quello si possono fare previsioni certe. Esattamente un anno fa il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, annunciò una commissione regionale per «valutare ciò che non è stato fatto e le eventuali partite finanziarie da rivendicare a Roma in sede di federalismo fiscale». Una commissione! Dopo quarantuno anni! Detto fatto (ci si passi l’ironia) il parto è durato un anno. Fino alla nascita, il primo marzo scorso. Da allora si è riunita una volta, per esaminare una proposta di disegno di legge. «Che fine abbia fatto non sappiamo», allarga le braccia sconsolato Vito Bonanno, uno dei suoi undici componenti. I quali, stando al decreto, «espletano l’incarico a titolo gratuito». Che sia per quello che poi non si riunisce?

Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella

08 maggio 2010

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