giovedì 6 maggio 2010

Il mezzanino delle libertà


di Marco Travaglio

Ma davvero qualcuno può pensare che il caso Scajola si chiuda con le dimissioni di Scajola? Ma davvero, come scrive Pigi Battista sul Pompiere della Sera, il caso Scajola è “una vicenda personale i cui contorni restano ancora enigmatici”?

Queste piacevolezze sarebbe il caso di lasciarle agli addetti ai favori.

Tipo Littorio Feltri, che addirittura si “leva il cappello” dinanzi al “valore del gesto” di Sciaboletta che “non risulta indagato” eppure s’è addirittura dimesso, dunque il cavalier padrone se lo deve riprendere al mercatino dell’usato per “utilizzarlo nel (e per il) partito allo scopo di riorganizzarlo specialmente in periferia” perché “in questo genere di incarico il dimissionato ci sa fare”.

O tipo Maurizio Belpietro, che se la prende con i “pm prevenuti” che hanno impedito a Scajola di “spiegare com’erano andate le cose e dimostrare di non aver nulla di cui vergognarsi”, poi assicura che il pover’uomo è “sconfitto, ma non vinto” (però…) e “sogna di tornare e ricominciare”. Magari da un altro appartamento in saldo.

L’impressione è che, accertatisi che la tragedia di quest’uomo ridicolo aveva indotto persino Berlusconi a scaricarlo, gli house organ dichiarati e i finto-terzisti abbiano una gran fretta di archiviare il tutto come una faccenda isolata, persino bizzarra, e di ricominciare come se nulla fosse accaduto. Come se, uscito di scena (per ora) il Rièccolo imperiese, non restasse sospesa una domanda grande come una casa, anzi come un mezzanino da 180 metri quadri vista Colosseo: perché mai il costruttore Anemone ha sborsato 900 mila euro per dare un tetto al ministro delle Attività produttive, già ministro dell’Interno e coordinatore di Forza Italia? Uno slancio di generosità per un povero homeless o qualcos’altro?

La cricca gelatinosa e trasversale emersa dalle indagini fa sospettare qualcos’altro. Un qualcos’altro che spiegherebbe un altro capitolo del mega-scandalo: perché mai San Guido Bertolaso andava al Salaria Sport Village convinto di farsi innocenti massaggi contro la cervicale, e il titolare, il solito Anemone, lo affidava a una brasiliana in bikini per curargli una cervicale decisamente più bassa?

La cricca ricattava (e ancora ricatta) ministri e sottosegretari? Quanto è lungo il guinzaglio del premier e dei suoi discepoli, a partire dal coordinatore Verdini, indagato per corruzione e riperquisito nella sua banca (perché a questo siamo: il coordinatore del primo partito d’Italia e di governo ha una banca)?

Mentre Bertolaso sostiene, restando serio, che non sono gli scandali del suo clan, ma il nuovo film della Guzzanti a guastare l’immagine dell’Italia, manca qualcuno che autorevolmente ponga queste domande.

Potrebbe farlo il capo dello Stato, nelle cui mani il governo giura: speriamo che, nel tragitto fra Quarto e Marsala, trovi il tempo per un “monito” all’“autocritica” non ai magistrati che indagano, ma ai politici che rubano.

Potrebbe farlo il presidente del Senato, se non fosse Schifani.

Potrebbe farlo Fini, ma verrebbe subito tacciato di tradimento e disfattismo.

Dovrebbe farlo il maggiore partito di opposizione, detto anche Pd, che ancora balbetta di “palude” e di “strappi”, come se temesse una crisi che lo coglierebbe, tanto per cambiare, impreparato.

Certo è stata una grande idea mandare a Ballarò, a parlare di casa Scajola, Massimo D’Alema che nel ‘96 dovette lasciare l’appartamento Inpdap da 150 metri quadri a Trastevere dopo che il Giornale ne aveva svelato l’affitto decisamente bassino: come mandare Sircana a dibattere su Marrazzo o Gasparri a parlare di Einstein.

Che Sallusti avrebbe azzardato un parallelo impossibile tra casa D’Alema e casa Scajola (D’Alema pagava poco, ma almeno pagava di tasca sua) era scontato. E mandarlo “a farsi fottere” è stato un altro colpo di genio.

Un’opposizione adeguata alla gravità del momento dovrebbe dotarsi di argomenti un po’ più efficaci. E magari di leader in grado di rispondere: “Noi siamo diversi da voi”.

Il “siamo meno peggio” non è proprio il Massimo.

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