giovedì 6 maggio 2010

Sovranità, voto e partecipazione


di Lorenza Carlassare

Il titolo IV, ”Rapporti politici”, chiude la prima parte della Costituzione. Il voto – elettorale e referendario – con il quale il popolo esercita la sovranità che gli ‘appartiene’, è esteso a tutti. L’art. 49 recita: “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Nel 2000, per favorire la partecipazione dei cittadini non residenti, si è aggiunto il comma 3 che istituisce una circoscrizione Estero. L’universalità del suffragio è recente. Nel 1848, emanato lo Statuto, meno del 2% aveva diritto al voto, gli altri erano esclusi per “censo”, “cultura”, “sesso”. Il suffragio gradualmente fu esteso: a tutti gli uomini nel 1918, alle donne nel 1946: la Costituzione specifica ora che elettori sono uomini e donne.

Oltre che personale, libero e segreto, il voto dev’essere “eguale”. Divieto, dunque. di attribuire maggior “peso” al voto di alcuni (come il voto multiplo che consente di votare in più collegi); eguaglianza “in entrata”, nel momento cioè in cui il voto viene espresso, non nel momento della trasformazione dei voti in seggi. L’eguaglianza del voto non si estende al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore, che dipende unicamente dal sistema elettorale, sul quale la Costituzione (ha precisato la Corte costituzionale) nulla dispone.

In verità la Costituzione tutta implica una pluralità di partiti e dunque un sistema elettorale che in qualche modo la preservi. Negli anni Novanta il “proporzionale” (che assicura la rappresentanza delle minoranze) è stato sostituito dal “maggioritario” nella ricerca di “governabilità” identificata con un bipartitismo impossibile.

Un sistema politico frammentato non si lascia facilmente ingabbiare entro schemi rigidi e alieni; differenze e conflittualità sono ricomparse all’interno dei “poli” in cui le si voleva rinchiudere. Il risultato vero, certamente voluto, è che gli interessi deboli sono rimasti senza voce, la sinistra è sparita dalle sedi istituzionali, intere fasce sociali non sono rappresentate; non emergono più esigenze, aspirazioni e progetti che non si inquadrino nella piatta omologazione.

La rappresentanza può essere “corretta” in nome dell’efficienza, ma è questione di “misura”; non fino al punto da diventare finzione. Una democrazia effettiva richiede corrispondenza fra eletti e ed elettori: meccanismi che stacchino gli uni dagli altri e forzino i risultati elettorali oltre misura, allontanano la rappresentanza dalla democrazia, “il potere” dal “popolo”.

Il “maggioritario” (anche se camuffato da proporzionale) è un sistema “nel quale i partiti maggiori, o almeno un partito, ottiene più seggi (e quindi più potere) di quanti gliene spetterebbero in base al criterio proporzionale” (Ugo Rescigno). Il premio di maggioranza (se elevato) ha appunto questo scopo, distorcere l’esito della consultazione attribuendo alla coalizione più votata più seggi di quanti gliene spetterebbero. Molti chiedono la modifica di una legge (indecente persino secondo chi l’ha proposta) dove gli elettori nemmeno scelgono i “rappresentanti”, nominati dal vertice partitico; ma piace troppo a chi vuole il dominio assoluto.

Il presidente del Consiglio ha parlato giustamente di un Parlamento di “figuranti” legati a chi li nomina. La vicenda Fini è istruttiva, chi osa schierarsi con lui sa bene che non sarà più in lista.

Il discorso non può prescindere dai partiti che di fatto hanno il monopolio delle elezioni. Secondo l’art. 49 “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”. La Costituzione ne mette in luce la strumentalità: un mezzo a disposizione dei cittadini per concorrere alla determinazione della politica nazionale. Se il “metodo democratico” (come divieto della violenza per la conquista del potere) si riferisce all’azione esterna dei partiti, questi, strumentali alla partecipazione, non possono prescindere dalla democrazia all’interno. Partiti “personali” con la base muta e le decisioni assunte dai vertici, appaiono incompatibili con il fine stesso per cui i cittadini si associano. Dopo la guerra, quando la struttura istituzionale era quasi inesistente, i partiti hanno svolto un ruolo essenziale come base per la ricostruzione del sistema. Gradualmente si sono trasformati e alla fine sono stati travolti: corruzione e Mani pulite hanno certamente concorso al crollo dei partiti tradizionali, peraltro già in crisi per eventi internazionali. La caduta del Muro di Berlino (1989), anche come momento simbolico, indebolisce i partiti di maggioranza che non possono più reggersi sulla contrapposizione a un sistema, quello sovietico, ormai imploso e, di riflesso, indebolisce la sinistra, che, fallito quel modello (dal quale invero già si differenziava), deve cercare una diversa identità. Da allora i partiti non sono più gli stessi, non solo nei nomi, ma anche nell’abbandono delle ideologie e nell’omologazione delle dirigenze. Il sistema maggioritario che si è voluto accompagnare a quella disgregazione e il bipolarismo coatto che ne è seguito, non hanno giovato. Il distacco della classe politica dal popolo sovrano è cresciuto a dismisura; l’immedesimazione dei partiti con le istituzioni ha favorito l’idea che il loro interesse coincida con quello delle istituzioni di cui si appropriano. Mortati (costituzionalista e Costituente) definiva il partito “parte totale”: “Parziale” nella visione degli interessi della collettività (e nelle sue finalità specifiche), ma “politico” perché la inquadra “nella visione generale dei bisogni della vita associata”. E distingueva appunto i partiti , che perseguono “fini superindividuali”, dalle fazioni , “rivolte a sostenere determinate persone”.

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