di LIANA MILELLA
Quando chiamano Fini e gli spiegano che cosa sta succedendo sle intercettazioni lui ascolta e poi, guardingo, interrompe l'interlocutore: "Ma siamo proprio sicuri che vada a finire così? Perché se veramente fosse così, allora vorrebbe dire che stavolta hanno dovuto accettare la nostra linea".
Poi raccomanda prudenza: "Stiamo attenti, non ci sbilanciamo prima di aver letto bene le carte, perché l'esperienza di queste leggi c'insegna che il tranello si può nascondere anche in una sola virgola".
È fatto così Gianfranco Fini. Uomo freddo anche nel giorno in cui tutti gli accreditano una secca vittoria e lui potrebbe scatenare il suo gruppo. Invece i finiani ricevono l'ordine di stare nelle righe. Di essere e mostrarsi diffidenti. E tutti sono cauti, proprio mentre al Senato i berluscones sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi per accreditare un testo che cambia "per volontà del Quirinale", pur sapendo bene che i rilievi del Colle sono gli stessi dei finiani. Ma il co-fondatore del Pdl non vuole strafare. Gli hanno riferito i giudizi di fuoco di Berlusconi contro di lui pronunciati 24 ore prima in via del Plebiscito, li memorizza, ma preferisce guardare al risultato. Che è sotto gli occhi di tutti: la legge sulle intercettazioni cambiata per l'ennesima volta, addirittura la terza in meno di un mese, dopo le sue richieste. E con la lente d'ingrandimento ancora puntata su quella proroga di 48 ore in 48 ore che potrebbe stressare le indagini e di fatto bloccarle.
E allora, nei ragionamenti riservati, i finiani tra loro possono sfregarsi le mani e commentare: "Se ci avessero dato retta, invece di dare battaglia e attaccare Giulia Bongiorno quando il ddl era alla Camera, questo testo poteva essere corretto un mese dopo che è uscito da palazzo Chigi. Invece abbiamo perso due anni. Ci hanno fatto la guerra. E hanno perso. La loro è un'evidente sconfitta non solo nel merito, ma soprattutto nel metodo. Com'è accaduto per la blocca processi e il processo breve".
Ricordano che appena una settimana fa il Guardasigilli Alfano è salito nello studio di Fini, gli ha messo gli (ormai vecchi) emendamenti sotto il naso e gli ha detto: "Questo testo è blindato, non dovete cambiare nemmeno una virgola". Ma poi è arrivata la matita rossa e blu del Quirinale che, ancora ieri, parlava della necessità di rendere "accettabile" un testo che evidentemente non lo era. E i finiani chiosano: "Alfano per primo ha dovuto piegare la testa".
La marcia indietro è tale che perfino durante la riunione della Consulta per la giustizia si scatenano le polemiche. Il presidente, naturalmente l'avvocato del premier Niccolò Ghedini, fatica ad arginarle. Come quando, appena ha terminato di illustrare le modifiche, interviene Giancarlo Lehner, giornalista pidiellino super garantista. "E voi mi chiedere di votare un provvedimento del genere? Ma siete pazzi? Questo è un ddl che dovete ritirare immediatamente. Non è quello che abbiamo promesso nel nostro programma di governo. È un cedimento totale alle richieste di Fini". Ghedini annaspa. Replica: "Abbiamo fatto solo delle modifiche procedurali che non incidono affatto sulla natura della legge. E poi, capiamoci bene: qui non è che possiamo fare la navetta con il Quirinale. Quelli ce lo avrebbero rimandato indietro se non lo avessimo cambiato. A questo punto dobbiamo votarlo e basta". Sono lontani i tempi del primo lodo Alfano quando gli ordini di Berlusconi erano legge. Adesso con gli altolà di Fini tutti devono fare i conti.
(04 giugno 2010)
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