martedì 8 giugno 2010

La memoria delle stragi


GIULIANO FERRARA

Caro direttore,

domenica sono stato rimproverato da Barbara Spinelli per aver scritto nel Foglio che in un Paese civile non si può convivere con l’accusa di strage al presidente del Consiglio: o la si dimostra, e allora il presidente del Consiglio va in galera, oppure la si pianta lì. Io criticavo il malvezzo di elucubrare sulle stragi del 1993, collegandole a quelle del 1992 (Falcone e Borsellino) e poi all’attentato dell’Addaura e al fallito tentativo dinamitardo allo Stadio Olimpico. «Elucubrare» significa dire e non dire, mettere insieme «ipotesi e ragionamenti» (l’espressione è usata difensivamente ed eufemisticamente dallo stesso Pietro Grasso) che puntano in una direzione malamente dissimulata: suggerire che Forza Italia, il partito del premier e di Marcello Dell’Utri e di tanti altri, è quell’entità esterna (definizione buscettiana trasferita direttamente al linguaggio delle procure) che attraverso una strategia mafiosa della tensione doveva raccogliere il frutto politico di una campagna di disordine e assassinio. Anche Luciano Violante, che sul tema aveva concesso un’intervista al Foglio, è stato rimproverato per non aver difeso a sufficienza il procuratore antimafia Grasso, sebbene il rabbuffo fosse espresso con toni meno corruschi di quelli dedicati a Violante da Marco Travaglio, il focoso maniaco del law and order con il quale la vostra eccellente editorialista è sempre più spesso in sintonia.

Secondo la Spinelli, in Italia non abbiamo una memoria fissa, certa, vincolante di ciò che è stato. Per questo siamo un Paese sfuggente, incapace di rispettare legalità e storia, fatti e coerenze etiche. Voltiamo gabbana a ogni tornante, e chi s’è visto s’è visto. Ma proprio lì sta il problema, gentile Spinelli. I Paesi che rispettano i propri archivi nazionali non accettano la convivenza inerte con testi, anche e soprattutto giudiziari, più simili al giornalismo, e non di prima categoria, o alla letteratura fantasy, che non a sentenze e motivazioni di atti pubblici.

Tutti sappiamo che in sede di motivazioni della sentenza lo stesso giudice che assolse Andreotti dall’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso scrisse che però fino al 1980 l’ex presidente del Consiglio era colluso con la mafia. Giudizio storico senza conseguenze contenuto in una sentenza; verità giudiziaria spuria, perché non suffragata da sentenza, trasformata in opinione di un giudice. Giudizio incauto, che abitua il lettore civile, l’opinione pubblica, a pensare che nell’archivio della verità nazionale c’è tutto e il contrario di tutto: devi convivere con un uomo politico assolto dall’accusa di mafia, sapendo che il risvolto di quell’assoluzione è una condanna non formalmente provata e non sanzionata di un reato passato in prescrizione. Con archivi così, è forse perfino meglio che gli italiani siano obliviosi.

Lo stesso vale per Silvio Berlusconi. Ciascuno ha diritto alla propria opinione su Marcello Dell’Utri, condannato in prima istanza per concorso esterno in mafia. Io penso che frequentasse pessime compagnie, come è accaduto a parecchi palermitani e non palermitani anche molto illustri, ma che l’accusa di «concorso esterno in un’associazione» sia una buffonata antigiuridica possibile solo in un Paese in cui si è obnubilata la coscienza del diritto come forma logica. Ditemi voi: la vicinanza storica del premier al suo collaboratore Dell’Utri autorizza forse a «dire e non dire» che il fenomeno Berlusconi, fatto eminentemente politico e pubblico, dispiegatosi sotto i nostri occhi e dotato (comunque la si pensi) di profonde ragioni storiche, è in realtà un fenomeno a metà tra la politica e il crimine stragista? Possiamo, sulla base di faldoni d’archivio frammentari, di leggende giudiziarie sottotraccia, convivere inerti con l’accusa di stragismo al capo del governo? Secondo me no. Secondo me questo è il punto. E se si voglia aiutare la memoria e la storia e la politica del nostro Paese ad essere o almeno ad assomigliare a quelle di un Paese civile, bisogna piantarla di suggerire quel che non si è saputo dimostrare. Soprattutto se si rivesta il ruolo di procuratore generale antimafia.

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Ho scritto il mio articolo non basandomi su elucubrazioni, ma su parole che hanno come fondamento precisi atti giudiziari: in particolare, la richiesta di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ‘93-‘94. Richiesta firmata da Pietro Grasso assieme a quattro magistrati, il 7 agosto 1998. Un atto giudiziario non è una ipotesi fantasiosa: è basato su elementi di giudizio e testimonianze molto circostanziati. Soprattutto, non è un’«opinione».

Giuliano Ferrara chiami pure tutto ciò mania del law and order. Per parte mia non ho nulla contro la legge e l’ordine. È la mania di chi vuol conoscere la verità. E non la fugge, solo perché a volte in un’inchiesta o in un processo mancano le prove conclusive necessarie a una condanna giudiziaria, ma ci sono tutti gli elementi sufficienti a una condanna politica. Solo anticorpi politici e civili altrettanto forti di quelli giudiziari possono garantire davvero la legge e l’ordine. I veri giustizialisti sono coloro che consegnano ai giudici il monopolio del giudizio.

Per inciso vorrei ricordare che il 26 maggio scorso Grasso parlava davanti alle vittime sopravvissute alla strage dei Georgofili (5 morti, 48 feriti) e ai loro parenti: «Persone che da sempre chiedono verità e giustizia», come ha detto il procuratore nazionale Antimafia a questo giornale. È prima di tutto a loro che dobbiamo verità, giustizia, e quella che Grasso chiama «un patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».

BARBARA SPINELLI

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

A GIULIANO FERRARA DOVREBBERO ASSEGNARE IL NOBEL PER IL DIRITTO, SE NE ESISTESSE UNO. NON VOGLIO PENSARE CHE NON SAPPIA NULLA DI DIRITTO, DI CERTO E' UN MAESTRO DELLA MENZOGNA E DELLA MISTIFICAZIONE DELLE IDEE. UN LETTORE INCOLTO SI LASCEREBBE FACILMENTE GABBARE.