martedì 8 giugno 2010

L'impresa e l'alibi dell'articolo 41


MICHELE AINIS

La Carta costituzionale è al contempo la carta d’identità di un popolo. Ne elenca i tratti culturali, anziché quelli somatici. Poiché in Italia nessuno la conosce, significa che non abbiamo idea di cosa siamo. Peggio: significa che ci sentiamo liberi di plasmare ogni mattina i nostri connotati, senza preoccuparci della fotografia scattata dai Costituenti. Ma c’è un’insidia più grave dell’oblio: il falso ricordo, tanto più se procurato con l’inganno. Un esempio potrà forse aiutarci a risvegliare la memoria.

Quale? L’art. 41 della Costituzione. Urge cambiarlo, ha detto nei giorni scorsi il ministro dell’Economia. Altrimenti la libertà d’impresa rimarrà per sempre una chimera, ostaggio d’uno Stato ficcanaso. Applausi bipartisan, con l’opposizione - da Morando a Violante - pronta a concorrere a questa rivoluzione liberale. E i cittadini? Avranno pensato che quella norma l’aveva vergata di suo pugno Stalin, che la Costituzione italiana del 1947 sia una ristampa anastatica della Costituzione sovietica del 1936. Poiché il professor Tremonti è persona colta, lui certamente sa cosa c’è scritto nei tre commi dell’art. 41. Noi invece dei nostri studi ci fidiamo poco, sicché apriamo un codice e inforchiamo un paio d’occhiali.

Primo comma: «L’iniziativa economica privata è libera». Dunque o stiamo consultando un testo apocrifo, oppure la libertà d’impresa ricade già fra i nostri valori collettivi. Che altro dovremmo aggiungerci per renderla più libera? Forse un termine di comparazione: libera come il vento, come un pesce, come il Popolo della libertà. Ma andiamo avanti, magari l’intralcio sbuca dal rigo successivo.

Secondo comma: «Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E che dovremmo dire? Che le imprese d'ora in poi saranno inutili o dannose? Che gli industriali devono esser liberi di brevettare giocattoli pericolosi, auto inquinanti, ecomostri, farmaci nocivi? Che possono trasformare le loro fabbriche in altrettanti lager?

Eppure è questo il gluteo su cui andrebbe a conficcarsi l’iniezione ri-costituente. Non può trattarsi infatti del terzo e ultimo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Perché no? Perché senza controlli ciascuno farebbe un po’ come gli pare, svuotando il secondo comma dell’art. 41. Altrimenti sarebbe come predicare la sicurezza sulle strade, licenziando al contempo tutti i vigili urbani. E perché se in tale norma s’individua viceversa la matrice delle leggi di piano, è bene ricordare che la prima e ultima legge di tal genere venne approvata nel 1967. Basta lasciare in sonno il terzo comma, dato che dorme da più di quarant’anni. A meno che il problema non siano i «fini sociali» dell’economia pubblica e privata. Si sa che il Pdl, quando sente menzionare Fini, fa un salto sulla sedia.

Insomma l’art. 41 non è che un alibi, uno schermo. Serve a scaricare sulla Costituzione l’impotenza dei politici a inaugurare una stagione di riforme liberali. Dice: ma l’art. 41 tace sulla libertà di concorrenza. E allora? Sarebbe forse incostituzionale l’Antitrust (per chiamarla col suo nome di battesimo: Autorità garante della concorrenza e del mercato), che bene o male funziona dal 1990? Non c’è forse l’art. 117 della Costituzione, che assegna alla legislazione dello Stato la «tutela della concorrenza»? Non c’è un fiume di norme europee - recepite nel nostro ordinamento - che a loro volta proteggono il libero mercato? Altrimenti non si capirebbe perché mai nella giurisprudenza costituzionale la «tutela della concorrenza» figuri in 131 decisioni, il «libero mercato» in 44, la «libertà di iniziativa economica privata» in 81, e via elencando.

Ma dopotutto non è questo ciò che importa. In Italia non conta la Costituzione scritta, conta quella immaginata. Occorre un bel po’ di fantasia, però i nostri politici ne hanno la bisaccia piena. Come diceva Giambattista Vico, la fantasia tanto più è robusta quanto più è debole il raziocinio.

michele.ainis@uniroma3.it

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