martedì 17 agosto 2010

Il paradosso tra Quirinale e Palazzo Chigi


Stefano Passigli *

Un paradosso caratterizza l’attuale confronto tra il Quirinale, che correttamente avverte che la Costituzione affida lo scioglimento delle Camere al solo Capo dello Stato, e Palazzo Chigi, che ispira minacce di un ricorso alla piazza al limite dell’eversione. Nella prima repubblica la presenza di un sistema partitico strutturato e di un partito dominante faceva sì che la composizione delle crisi avvenisse sostanzialmente in seno alla dialettica delle correnti Dc, limitando il ruolo del Quirinale. Il bipolarismo spurio della seconda repubblica ha invece ridotto drasticamente gli spazi di mediazione all’interno del sistema partitico, rendendo così più sostanziale il ruolo di arbitro delle crisi che la Costituzione affida alla responsabilità del Presidente. Un ruolo che il Capo dello Stato assolve in solitudine, dato l’infausta prassi introdotta da Berlusconi nel 1994 di nominare entrambi i presidenti delle Camere all’interno della maggioranza anziché come in precedenza condividerli con l’opposizione. Proprio questa solitudine del Capo dello Stato fa sì che mentre nella prima repubblica - grazie anche alla mancanza di alternanza conseguente alla situazione internazionale – le crisi quando non risolte attraverso la moratoria di governi balneari davano luogo a scioglimenti consensuali, nella seconda repubblica i precedenti acquistino maggiore importanza nella valutazione che il Presidente deve dare alle richieste di scioglimento che proprio il bipolarismo rende più conflittuali.

Ora, non vi è dubbio che i precedenti indichino - come suggerisce la forma di governo parlamentare voluta dalla nostra Costituzione e confermata dai cittadini nel referendum del 2006 – di rimettere alla valutazione del Parlamento l’opportunità o meno di uno scioglimento. Così è stato nel 1994 quando fu disattesa la richiesta di Berlusconi di tornare alle urne dopo il ritiro della Lega dalla maggioranza, e così nel 1998 quando fu respinta la richiesta di Prodi dopo l’abbandono di Bertinotti. Due precedenti inequivocabili - uno a carico di un governo di centrodestra, l’altro di un governo di centrosinistra - in entrambi i casi seguiti dalla formazione di governi retti da maggioranze diverse dalle precedenti. Nel caso dunque che la crisi dell’attuale coalizione di centrodestra venisse certificata da un voto parlamentare, l’ipotesi di un governo che si reggesse su di una diversa maggioranza nulla avrebbe di nuovo e resterebbe pienamente nel solco delle democrazie parlamentari e del nostro dettato costituzionale.

Ma esiste una nuova e diversa maggioranza parlamentare sia pur per un governo limitato nella durata e al compito di riformare una legge elettorale viziata da evidenti profili di incostituzionalità? È lecito dubitarne: possibile alla Camera, una maggioranza per un governo di emergenza istituzionale sarebbe forse di difficile costruzione al Senato. Comunque, occorre augurarsi che in caso di caduta del governo Berlusconi sia fatto ogni tentativo per dar vita ad un nuovo esecutivo che si presenti alle Camere per ricercarne la fiducia, e modificare una legge elettorale che grazie alle liste bloccate espropria i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti alterando irrimediabilmente l’autonomia del Parlamento e il suo ruolo di contrappeso del governo. In ogni caso, un nuovo esecutivo di garanzia, anche minoritario, sarebbe auspicabile per gestire le nuove elezioni. È un’elementare regola democratica che le elezioni avvengano in condizioni di parità: opportuno dunque che esse non siano gestite da un governo sfiduciato guidato da chi, in assenza di un’efficace legge sul conflitto di interessi, vedrebbe confermata una posizione dominante nel sistema dell’informazione che gli consentirebbe di influenzare ulteriormente la libera formazione del consenso politico.

*Docente universitario ed ex parlamentare

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