domenica 15 agosto 2010

L'impotente grandezza del Cavaliere


BARBARA SPINELLI

E’ venuta l’ora di analizzare la morte di quella che è stata chiamata, in gran fretta e proditoriamente, Seconda Repubblica. Doveva essere qualcosa che somigliava alla quinta repubblica di De Gaulle, inaugurata alla fine degli Anni 50: un sistema che restituisse alla politica la nobiltà, lo sguardo lungo, l’efficacia che il predominio di fazioni e partiti le aveva tolto. Doveva, partendo dalla simultanea svolta avvenuta a Nord con Mani Pulite e a Sud con l’offensiva contro la mafia di Falcone e Borsellino, rigenerare un ceto politico corrotto da anni di democrazia senza alternanza, di poteri paralleli e illegali. Le forze che dopo il ’45 avevano ricostruito il Paese gli avevano dato una Costituzione vigile sulla democrazia, ma antichi mali, non curati, si erano incancreniti: il rapporto degli italiani e dei politici con lo Stato in primo luogo, e la maleducazione civile, lo sprezzo della legalità, del bene comune. Tutti questi mali sopravvissero alla Prima Repubblica, e per questo anche la seconda sta morendo.

Quel che mancò, nei primi Anni ’90, fu la rigenerazione delle classi dirigenti. La politica abdicò, accettò di farsi screditare, e forze estranee ad essa se ne appropriarono. Furono queste ultime ad annunciare l’avvento del Nuovo: nuovi uomini, non prigionieri dei vecchi partiti; nuova attitudine manageriale al comando; nuova fermezza nel decidere. La Seconda Repubblica è stata innanzitutto un sistema di dominio il cui scopo era di radicare quest’immagine del potere nelle menti di italiani stanchi di lungaggini, assetati di efficacia. Altri obiettivi non esistevano, se non la libertà del leader da ogni vincolo. Il conflitto d’interessi non era un ostacolo: sanciva tale libertà. Ovvio che la rigenerazione dello Stato e della legalità divenne non solo impossibile ma esecrata. Mani Pulite e Falcone-Borsellino erano escrescenze di una Prima Repubblica caduta per motivi che restando arcani non insegnavano nulla se non più furbizia e più menzogne.

I dati lo confermarono presto, dopo Tangentopoli: la corruzione non solo era ripresa, ma s’era inasprita fino ad assumere, oggi, proporzioni enormi. L’impunità dei dirigenti s’estese. L’informazione televisiva, ieri lottizzata, è ora monopolizzata da una persona. La Seconda Repubblica era nata, ma affatto diversa dal racconto che se ne faceva. Ha dato vita al bipolarismo, ma un bipolarismo tra due concezioni dello Stato e della legge, non fra due politiche. In sedici anni ha creato un sistema che salvaguarda i difetti del regime precedente, distruggendo le forze e gli anticorpi che nonostante tutto esso ancora possedeva. Non c’è dunque una sola Seconda Repubblica. Ce n’è una cui tendevano i veri riformatori. E ce n’è un’altra, effettiva, che usurpando il linguaggio dei riformatori ha installato un regime che confonde la crisi della politica con l’inutilità della politica, e mette il potere esecutivo al riparo da ogni controllo. Che non ha corretto nulla se non l’immagine del leader, e l’uso democratico di frenare il potere eccessivo con altri poteri.

Questa Seconda Repubblica non è falsa a causa del predominio di una persona (Berlusconi). È falsa perché ha dato agli italiani, contemporaneamente, un uomo forte e uno Stato disarticolato, con poteri di controllo indeboliti se non neutralizzati. Per poteri di controllo s’intende la magistratura, la stampa indipendente, il Capo dello Stato che incarna il legame con la Costituzione, la Costituzione stessa. Quando si parla di regime non si parla di un uomo, ma di questa ben organizzata disarticolazione.

Gli italiani hanno avuto quel che non chiedevano. Non la politica rinobilitata, ma il suo discredito. Non una giustizia più rapida, ma una giustizia celere con i deboli, impotente e interminabile con i forti: una giustizia giudicata usurpatrice se giudica i potenti, come usurpatrice è giudicata la stampa indipendente. La Prima Repubblica aveva anticorpi che l’affossarono; la Seconda forse ne ha ma di meno, sicché neppure ricorre all’ipocrisia: Berlusconi non esita a rompere con Fini che chiede il rispetto della legalità, non esita a definire golpista il potere del Quirinale di sciogliere il Parlamento. L’interiorizzazione dell’illegalità non potrebbe essere più esplicita e impudente.

Tuttavia anche la Seconda Repubblica sta morendo. Perché non c’è leader che alla lunga possa vivere d’immagine, senza esserlo. Perché non basta inoculare nelle menti lo sprezzo della politica, per aggiustarla. Quando Berlusconi incolpa il «teatrino della politica», sa di che parla perché tutto in lui è teatrale. Hannah Arendt spiega bene come simili teatranti si adoperino a «defattualizzare la realtà» (memorabile il saggio sulla guerra in Vietnam, New York Review of Books 18-11-’71). Un «enorme sforzo fu dispiegato», scrisse quando i Pentagon Papers rivelarono l’inutile disastro della guerra, per «dimostrare l’impotenza della grandezza». Egualmente impotente è la grandezza del Premier italiano: proprio come leader ha fallito, incapace di tener unite la ampie maggioranze di cui disponeva.

Se si vuole analizzare la fine della Seconda Repubblica, bisogna fare quel che non si è fatto: capire perché la Prima cadde, e come. Riconoscere i mali che sopravvissero nella Seconda, e anche certe virtù che nella distruzione vennero spazzate via. La Prima Repubblica infatti non fu solo storia criminale. Fu anche partecipazione all’Unione europea. Fu la tendenza ad aggirare magari la Costituzione, non a demolirla. Fu Mani Pulite e l’opera di Falcone e Borsellino. Fu l’incorruttibile lealtà istituzionale di Vincenzo Bianchi, il generale della Guardia di Finanza morto l’altro ieri a Civitavecchia: nell’81, su incarico dei magistrati Turone e Colombo, l’allora colonnello scoprì a Castiglion Fibocchi, una fabbrica di Gelli, la lista dei 972 affiliati alla P-2. Fu, infine, la capacità di resistere alla grave sfida delle Br. Basti pensare al ruolo decisivo che i pentiti svolsero nell’anti-terrorismo, al colpo mortale inferto dalle prime deposizioni di Patrizio Peci nell’80. Il giudice Giancarlo Caselli ricorda, nel libro scritto con il figlio Stefano (Le Due Guerre, 2009), gli esordi della Seconda Repubblica, quella raccontata come nuova: come prima cosa, nella lotta alla mafia e ai suoi legami con la politica, vengono mozzati l’uso e la protezione dei pentiti. Meritevole non è più chi parla ma chi omertosamente tace, come Mangano.

Rimeditare la fine della Prima Repubblica significa svelare la vera natura della Seconda. Non è detto che si riesca, tanto vasta è la manipolazione, lo spin di chi guida il regime. Tutti ne sono prigionieri: anche la stampa, quando accetta di mettere sullo stesso piano le vicende monegasche di Fini e quelle di Berlusconi e dei suoi. Quando denuncia la politica fatta a colpi di dossier sui mali altrui. Il risultato, lo spiega Michele Brambilla su La Stampa, è di «attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre». È una trappola in cui Fini, che ha rotto sulla legalità, rischia di cadere. Da giorni, i suoi uomini invocano una tregua, e tanti reclamano la fine di «contrapposizioni dannose»: se Berlusconi con i suoi giornali smette gli attacchi al presidente della Camera, anche i finiani smetteranno l’offensiva su illegalità e corruzione. La rottura non servirebbe ad altro che a rendere gli scandali tutti eguali: la vendita di una casa di An e la corruzione di magistrati, l’uso privato del denaro pubblico, il monopolio televisivo. La tregua, presentata come progresso, sarebbe il fallimento del Presidente della Camera, non di Berlusconi. Non la casa a Montecarlo rischia di squalificare Fini, ma la rinuncia alla battaglia sulla legalità, e a una Repubblica che cessi di definirsi nuova solo perché viene «defattualizzata» e abusivamente chiamata Seconda.

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