di Gianni Ghiselli
La denigrazione dell’avversario politico, del nemico privato (inimicus) e pubblico (hostis), dell’antagonista nella lotta di classe, del personaggio storico o comunque famoso, della fazione e della località abitata da gente ostile, non l’ha inventata la banda di B: risale agli scrittori greci e latini. Euripide presenta un quadro negativo delle città nemiche di Atene, Sparta in primis, durante la guerra del Peloponneso (431-404 a. C.), contemporanea alle rappresentazioni dei suoi drammi: nell’Andromaca il vecchio Peleo critica tutte le ragazze spartane per i loro costumi “dissoluti” dicendo: “Neppure se lo volesse potrebbe restare onesta una delle giovani lacedemoni che, uscendo di casa con le cosce nude e i pepli sciolti, frequentano palestre e fanno corse in comune con i ragazzi”. Nella tragedia Oreste, Menelao, re di Sparta e marito tradito dalla spartana Elena, viene avanti “pavoneggiandosi per i riccioli biondi sugli omeri” (v. 1532) prefigurando il miles gloriosus plautino, il soldato “spaccone, riccioluto, puttaniere, impomatato”. Se ne ricorderà Tolstoj nel tratteggiare il tipico nemico francese in Guerra e pace, dove il cognato di Napoleone è descritto come “un uomo dal cappello adorno di piume, i capelli inanellati che gli piovevano sulle spalle. Costui era Murat, che aveva assunto la qualifica di re di Napoli. Alla vista del generale russo, con gesto regale e solenne, respinse indietro il capo con quei capelli a riccioli fluenti sulle spalle. La faccia raggiava di stolida soddisfazione”.
Nemici di classe
PASSIAMO all’avversario politico che spesso è anche nemico di classe. L’aristocratico Tucidide non perde occasione di infamare il cuoiaio Cleone, presentato come “il più violento dei cittadini e quello più capace di persuadere la massa” (III, 36, 6). A proposito della morte di questo beniamino del popolo, lo storiografo della guerra del Peloponneso imbastisce una menzogna affermando che, durante uno scontro militare, il demagogo ateniese si diede alla fuga, e morì colpito alle spalle. Ma secondo un'altra tradizione pervenutaci nella Biblioteca storica di Diodoro (storico siciliano dell'Età Augustea), Cleone perse la vita, "in una gara insuperabile" (XII 73) contro il nemico spartano. La lotta di classe, che aveva contrapposto Tucidide all'autentico capo popolano della democrazia ateniese , è infondo la vera origine di questa deformazione dei fatti del 422 a. C. Bisogna dire che gli storiografi antichi cercano di essere obiettivi verso il nemico esterno, ma non con quello interno, per odio di partito o di classe. Tacito elogia i temibili Germani, e attribuisce parole giuste, belle, memorabili a Calgaco il capo dei Caledoni ribelli all’impero, mentre scredita continuamente gli imperatori e la plebe romana. Dopo la morte di Augusto (14 d. C.) ci fu una rivolta delle legioni della Pannonia. L’autore degli Annales presenta Percennio, il caporione dei rivoltosi (I 16) con profondo disprezzo: era un gregarius miles, soldato semplice, petulante, che aveva appreso a sollevare la folla bazzicando i teatri. Costui si atteggiava a comandante e divenne per qualche tempo un acclamato duce grazie alla sua esperienza di istrione e di capo di claque teatrali. Tacito non cerca di capire i motivi economici e sociali della ribellione, ma la presenta come un caso di arroganza plebea , e la liquida con formule piene di supponenza. Un po’ come Marchionne quando ha affermato che gli operai facevano sciopero per vedere una partita di calcio.
Affari di Stato
TALORA lo sputtanamento è di Stato e vi partecipano gli intellettuali di corte. Si pensi alla propaganda augustea contro Antonio e Cleopatra e la parte non piccola che ne ebbe Orazio. Il poeta di Venosa esulta e brinda, nunc est bibendum (Odi, I, 37), per la morte dei nemici di Ottaviano, e presenta la regina d’Egitto, amante di Antonio, come colei che preparava folli rovine e morte all’impero. Il suo seguito era costituito da uomini turpi e ubriachi, e meno male che salvò la propria dignità con una morte coraggiosa. La reputazione di Alessandro Magno viene demolita da diversi scrittori latini. Tito Livio, per mettere in risalto la grandezza di Roma, cerca di screditare l’impresa del Macedone che deve cedere, se paragonato ai consoli romani suoi contemporanei: l’Italia di Tito Manlio Torquato, di Valerio Corvo, dei Decii, era tutt’altra cosa dalla landa asiatica attraverso la quale il figlio di Filippo passò gozzovigliando con uno stuolo di ubriachi (Storie, 9, 17). Quel giovane non ebbe nemmeno la forza di sopportare i successi che lo corruppero. Seneca annienta la gloria del conquistatore dell’Impero persiano raffigurandolo come un pazzo fin dall’adolescenza, un predone e un devastatore, una peste e rovina tanto dei nemici quanto degli amici, un uomo simile alle bestie feroci le quali sbranano più di quanto esige la fame. Lucano, nipote di Seneca, nel decimo libro della Pharsalia presenta Alessandro come un re pazzo e un bandito che ha avuto successo. Venuto dalle spelonche della Macedonia, disprezzò Atene vinta dal padre, e si precipitò tra i popoli d'Asia facendo strage di uomini. Mescolò grandi fiumi con il sangue: l'Eufrate con quello dei Persiani, il Gange degli Indiani, e fu un male fatale, una stella infausta per i popoli. Talora gli strali polemici colpiscono il collega in campo culturale per la diversità dei metodi e delle idee. Socrate, santificato da molti, a partire da Platone e Senofonte, è un obiettivo di Nietzsche che non gli risparmia nemmeno gli insulti personali. Da lui deriverebbe la morte della tragedia, la sfiducia nell’istinto, la cultura alessandrina, pallida, dottorale, estranea al mito e alla vita. Insomma dal maestro di Platone inizierebbe la decadenza della civiltà greca, quindi europea.
g.ghiselli@tin.it
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