sabato 23 ottobre 2010

La differenza tra immunità e impunità


LUCA RICOLFI

In tutta Europa si parla di cose serie, di come gestire la crisi economica e possibilmente uscirne. Anche in Italia se ne parla molto, e con grande preoccupazione, sulla grande stampa non meno che fra la gente. Non così nei palazzi della politica, dove quotidianamente va in scena il conflitto fra Pdl e Fli, ovvero la disfida fra Berlusconi e Fini. Mi sono sempre occupato poco di queste beghe, convinto che i problemi più gravi dell’Italia, quelli da cui dipende la nostra vita di tutti i giorni, siano quelli economico-sociali, e che un governo vada giudicato innanzitutto per come affronta quel tipo di problemi. E proprio in questo spirito, nelle ultime due settimane La Stampa ha messo molte delle sue energie su un duplice obiettivo: un bilancio di metà legislatura delle cose fatte fin qui, e un inventario delle cose ancora da fare. Ora però è diverso. Le beghe fra Pdl e Fli sono arrivate a un punto tale da mettere a repentaglio qualsiasi speranza di veder affrontati i nostri veri problemi. E il patto che si va profilando fra Berlusconi e Fini va, a mio parere, oltre qualsiasi ragionevole soglia di decenza.

Provo a dire perché. Berlusconi, lo sappiamo tutti, ha avuto ed ha una serie di problemi giudiziari. La maggior parte li ha scansati come un'anguilla, per lo più attraverso varie leggi ad personam, ma altri restano in piedi, ed altri ancora si profilano all'orizzonte. Alcuni ritengono che dovrebbe affrontare i processi, ora e subito, anche se questo dovesse rendergli estremamente difficoltoso esercitare le sue funzioni di presidente del Consiglio. Altri pensano che una parte della magistratura perseguiti Berlusconi, e che questo lo autorizzi a sottrarsi ai processi vita natural durante. Fra queste due posizioni estreme, tuttavia, da tempo si è fatta strada una posizione intermedia, che chiamerei la «soluzione Sartori», perché fu appunto Giovanni Sartori ad enunciarla con la massima chiarezza in un editoriale del Corriere della Sera di qualche anno fa. Secondo questa posizione un politico eletto, che sta governando, di fronte a un rinvio a giudizio che lo costringerebbe ad affrontare un processo dovrebbe avere la facoltà di scegliere fra due alternative: affrontare il processo subito, oppure ottenerne la sospensione fino al termine del proprio mandato. La ratio di questa soluzione è duplice: da un lato tutela il potere politico rispetto al potere giudiziario, dall’altro tutela le scelte dell’elettorato, impedendo che un governo liberamente eletto possa divenire ostaggio delle iniziative di singoli magistrati.

Nello stesso tempo, prevedendo comunque l’obbligo per il politico di affrontare il processo al più tardi alla fine del proprio mandato, tutela il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Fino a qualche giorno fa sembrava questa la filosofia prevalente non solo in una parte dell’opposizione, segnatamente nel partito di Casini, ma anche fra i politici della maggioranza, non solo quelli di Futuro e libertà ma anche quelli del Pdl. Che infatti non si sono mai stancati di ripetere, in innumerevoli occasioni, che la richiesta di immunità per il premier non era una pretesa di impunità. Ora però non è più così. Nella commissione Affari costituzionali del Senato la maggioranza ha approvato, con il concorso degli uomini di Fini, una versione del cosiddetto lodo Alfano costituzionale che non solo prevede uno scudo per Berlusconi fino al termine del suo attuale mandato (2013), ma anche la reiterabilità dello scudo, ossia la possibilità di sospendere i processi più volte. In concreto significa che Berlusconi potrebbe sottrarsi ai suoi processi semplicemente facendosi rieleggere presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica, carica da cui decadrebbe nel 2020, alla veneranda età di 84 anni.

Non solo, ma una volta approvato il lodo nell’attuale forma, sarebbe la Costituzione stessa a prevedere la possibilità di usare l’accesso alle più alte cariche dello Stato come strumento per sfuggire ai processi. Una norma pensata per salvare un singolo uomo politico determinerebbe un cambiamento permanente del Dna della nostra Carta fondamentale. A me pare troppo. Pur non votando mai per lui, non sono mai stato fra i demonizzatori di Berlusconi. Spesso mi è capitato di scrivere, sulla base dei miei studi e delle mie ricerche empiriche, che i suoi governi avevano fatto molto meno di quanto aveva promesso, ma anche molto di più di quanto i suoi avversari fossero disposti a riconoscergli. Inoltre non amo il «conservatorismo costituzionale» di tanti miei amici e colleghi, perché la Costituzione del 1948 mi pare superata e, come dicevano i comunisti italiani a proposito dell'Unione Sovietica, non priva di «tratti illiberali». Però quel che è troppo è troppo.

Capisco che per i finiani di Futuro e libertà l'opportunità politica e le ambizioni di partito facciano aggio su qualsiasi considerazione di correttezza istituzionale, di giustizia, di ragionevolezza. Capisco che i politici di Fli preferiscano glissare sulla distinzione fra uno scudo a tempo (che Fini stesso aveva promesso a Berlusconi) e uno scudo eterno, che nessuno si era sognato di promettere a chicchessia. E capisco pure il ragionamento politico - svolto ieri dal Secolo d'Italia, quotidiano vicino a Fini - per cui pur di avere le mani libere domani si è disposti a pagare il «dazio» dello scudo per Berlusconi oggi. Ma per noi cittadini è diverso. Per noi, o almeno per quanti di noi vogliono continuare a credere nell’uguaglianza di tutti, politici e comuni mortali, di fronte alla legge, la distinzione fra immunità e impunità è chiarissima. Sull’immunità si può discutere, se non altro perché è un istituto presente anche in altre democrazie. Sull’impunità diventa difficile, molto difficile, anche con la migliore buona volontà. Almeno finché vogliamo vivere in uno Stato di diritto.

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