venerdì 22 ottobre 2010

MADONNA CHE SILENZIO C’È SU NUTI


di Malcom Pagani

La vita non è un colpo di biliardo e ora che Francesco Nuti, a 55 anni non parla e comunica solo con occhi, smorfie e scrittura incerta, pensare a tutte le buche in cui il suo talento è caduto, fa male. Una volta, era diverso. La coppa era radicale, la finocchiona comunista, Caruso Paskoski si toccava dietro il vetro smerigliato di una modesta casa fiorentina di ringhiera e la segreteria era invasa dai messaggi. La questua alla porta, i cinema pieni. I personaggi facevano la fortuna dei produttori e il cine-panettone con un tocco chapliniano (Andrea Scanzi) era il film natalizio dell’ex giancattivo cresciuto con Athina Cenci e Benvenuti. Nuti è stato cancellato dagli stessi che per anni lo avevano implorato, blandito, ingannato. Quelli che adesso, mentre non pronuncia più una sillaba e sconta peccati della vita e postumi della caduta casalinga del 2006 che gli provocò un coma e lo costrinse in un letto d’ospedale per un anno e mezzo, si toccano grevi e aggiustano il cavallo quando ascoltano il suo nome.

ANNA MARIA Malipiero, la donna con cui Nuti ha messo al mondo Ginevra, oggi adolescente, non rilascia interviste da tre anni: “È la prima volta. Sono riservata e il dolore ha fatto il resto. Ma adesso è tempo di esprimersi, di urlare, perché nonostante le difficoltà motorie e l’afasia conseguenti all’incidente, Francesco sta bene. Lotta, ricomincia a camminare, lavora per risalire. Emana una serenità che non ho mai visto negli ultimi quindici anni. Un candore che commuove”. La voce dolce, la mano forte di chi ha saputo tenere insieme ogni cosa, mentre l’esistenza del suo doppio, tra una bottiglia e una crisi depressiva, andava alla deriva: “Francesco ha pagato la sincerità e la voglia di sperimentare. Il pubblico non l’ha seguito più e lui, ignorato dal vasto pezzo di mondo che aveva reso ricco, si è lasciato andare. Francesco era una fonte di guadagno, evaporato quello, sono spariti tutti. È triste, ma vero”. Se le chiedi come sia stato accudire nella riabilitazione l’uomo che amava in un complicato percorso di recupero alla vita, corregge: “Accudire è veramente un termine orribile. Io sono stato accanto all’uomo che amavo e sono orgogliosa di averlo fatto. Altrimenti, non mi sarei potuta comportare”. Quando scavi, domandandole come sia per la figlia comunicare con un padre senza voce, non si ritrae. “Si somigliano molto, stanno lì per ore, in silenzio. Identici per cromosomi, attitudine e indole”.

MARIO CANALE, documentarista italiano con passione per gli oblii senza ragione apparente (Pontecorvo, De Sica) ha scelto la Mia Martini dei registi per dare vita a un ritratto che il prossimo 5 novembre verrà ospitato dal Festival di Roma. Francesco Nuti... e vengo da lontano è un’indagine su una fragilità al di sopra di ogni sospetto, sulla fama in grado di annichilire e su un universo, quello del cinema, non al riparo dalla paura del crollo improvviso. Canale, 61 anni, non ha trovato la strada spianata. Si è scontrato con la diffusa diffidenza che circonda Nuti. Nessun finanziamento, ironie ineleganti sul progetto, porte sbarrate. Così ha fatto da solo, rischiando di tasca propria e coinvolgendo i pochi amici rimasti vicini a Nuti (Benigni, Veronesi, Ozpetek).

IN QUESTI ANNI, intorno alla memoria del ragazzo di Firenze, figlio di un barbiere di Narnali e di una casalinga calabrese, il silenzio che meritano i reietti. Come nessun altro, Nuti ha gettato via se stesso. Le feste a Grottammare, il caos calmo dei giorni felici, le esibizioni, sanremesi, i premi e gli incassi (Donne con le gonne, 25 miliardi di lire nel 1992), gli amori. Tutto alle spalle, dopo la maledizione collodiana. Il film che inclinò il piano si intitolava Occhiopinocchio. Ambiziosissimo, squinternato, lungo quasi due ore e mezza.

LA LAVORAZIONE americana durò 15 mesi, Nuti dirigeva Chiara Caselli direttamente dalla limousine, non sempre sobrio. La critica si accanì, Cecchi Gori spese quasi 20 miliardi mentre il suo sodalizio con Berlusconi naufragava trascinando con sé tutto il resto. Il nome del regista toscano divenne sinonimo di problemi e inaffidabilità. E gli ingrati, uscirono allo scoperto. “È impazzito”, “Si è montato la testa”, “Si droga”. Cattiverie che seguirono l’improvviso disamore del pubblico che al Signor Quindicipalle e alle due successive prove restituirono modesti incassi e delusioni. Allora Nuti, troppo franco, completò l’opera. Confessò la dipendenza dall’alcool, minacciò il suicidio nel 2003, allargò i crateri intorno a sé. Alla debolezza, in certi ambiti, si sputa in faccia. Non gli perdonavano la sperimentazione, il rischio, l’esagerazione, una spontaneità che come nei film tra amori e calessi dell’amico fragile Troisi: “Ma pecché siete tutti così sinceri con me?”, nessuno voleva accogliere. Volevano un Nuti. Il Nuti che li faceva ridere, che alleggeriva le complicazioni, che strappava le mutande. Scoprirne un altro spinse il pubblico al rifiuto, i mecenati alla fuga.

MALIPIERO invita a non semplificare: “Pensare che la sua difficoltà psicologica nascesse a causa di un insuccesso è limitante. Francesco è più complesso di un risultato al botteghino, meno banale. Credo che il suo turbamento fosse esattamente il contrario: gestire un successo enorme e inatteso. Voleva crescere, evadere dai sentieri che aveva battuto fino ad allora, ma non lo assecondò nessuno. La sua depressione comunque fiorì molto tempo prima dei tracolli finanziari delle sue opere”. Malipiero ricorda Il ragazzo di umili natali che venne aiutato dal padre: “Fu lui a spingerlo a provarci. Gli diede un anno di tempo: ‘Altrimenti ti laurei”. Nuti era iscritto alla facoltà di Biologia. Il cinema venne dopo. Lo studio del Dna mai più. “Francesco è un uomo meraviglioso, spiritoso, onesto, divertente. In pochi lo conoscono davvero perché il suo pudore e la timidezza lo spingevano a nascondersi”. Poi un guizzo, un gesto difensivo, un riflesso: “Di Nuti si discute alternativamente prendendo in esame successo o malattia. È un po’ volgare. C’era altro, c’è altro”. Ma nelle parole di Anna Maria non c’è rabbia, solo constatazione di un oggettivo deserto: “Poche persone sono venute a trovarlo. Era solo, anche prima che battesse la testa e finisse in coma”. Con il tempo Nuti l’ha capito. Malipiero visse l’incidente in diretta: “Io stavo partendo la mattina per portare Ginevra a Roma, mi chiamano da casa e mi dicono che lo hanno trovato per terra, incosciente”. Stava per firmare il contratto per un film, Nuti. Un progetto inseguito a lungo. Un ritorno ai personaggi del passato, ai Novello Novelli, ai monologhi di fine anni ‘70: Olga e i fratellastri Billi. Non lo ha girato, è caduto e non fu tutta colpa del paradiso. Se chiedi a Malipiero se sia folle pensare a un ritorno sul set, la scopri possibilista: “Voglio essere ottimista. Scrive, ragiona, compone poesie. È lucido, ha una memoria straordinaria. Potrebbe riuscirci, io ci credo”. Qualcuno sussurra che a Roma, in sala, potrebbe esserci anche lui. Tra le poltrone e davanti allo schermo. Un mondo ribaltato. Un nuovo inizio. “A me piacerebbe”. Poi si blocca, cerca una via di uscita, tituba: “Lo spero”. Proverà a convincerlo. Sorride. E la prima volta è anche l’ultima del colloquio. A Narnali, a nord di Prato, a ovest di Paperino, Francesco Nuti prepara la valigia.

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