venerdì 12 novembre 2010

Giudici da vivi e da morti


di Gian Carlo Caselli

Le parole di Roberto Saviano su Giovanni Falcone, inserite nel discorso di Vieni via con me contro i “fabbricatori di fango”, hanno suscitato polemiche ingiustificate. Falcone e Borsellino - è bene ripeterlo - osannati da morti, sono stati ostacolati e alla fine umiliati, umanamente e professionalmente, da vivi. Ho fatto parte del Csm (1986-90) che ripetutamente dovette occuparsi di loro. Il primo caso, poco dopo la conclusione del Maxi-processo a Cosa Nostra, riguardò Paolo Borsellino, quand’egli fece domanda di trasferimento dal Tribunale di Palermo (pool dell’ufficio istruzione specializzato in indagini su “Cosa Nostra” ) per essere nominato procuratore capo a Marsala.

LA SPACCATURA all’interno del Csm riguardò i criteri di nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari in terre di mafia. Concorrente di Borsellino era un magistrato molto più anziano ma inesperto di criminalità organizzata. All’interno del Consiglio si crearono due fronti, uno a favore dell’anzianità di servizio, allora principale criterio di assegnazione degli incarichi “ordinari”, un altro a favore delle specifiche attitudini antimafia di Paolo Borsellino. Questo secondo orientamento poggiava su una delibera adottata dal Csm il 15 maggio 1986, contenente l’impegno di nominare i dirigenti degli uffici interessati nella lotta alla mafia in modo “mirato”, tenendo conto del criterio della professionalità specifica. Alla fine, la maggioranza del Csm si espresse in favore di Borsellino. Sembrava tutto finito. Invece scese in campo il Corriere della Sera. Il maggiore quotidiano italiano pubblicò un editoriale di Leonardo Sciascia, intitolato “I professionisti dell’Antimafia”. Sciascia è un gigante, in assoluto uno dei miei scrittori preferiti, ma questo articolo fu un errore clamoroso, causa di danni permanenti. Parlare di Borsellino come di un “professionista dell’antimafia” nel senso di un arrivista che sgomita per buttare fuori dalla carreggiata colleghi più meritevoli è cosa assurda, destituita da ogni plausibilità. Tanto più se i meriti del concorrente erano (oltre all’anagrafe) il non aver mai fatto neppure un processo di mafia e ammetterlo “con schiettezza e lealtà” da “magistrato gentiluomo” (così nell’articolo di Sciascia). Anni dopo, proprio parlando con Borsellino, Sciascia riconoscerà di essere stato male informato (e che ci sia stato un “informatore” interessato lo si intuisce dall’incipit dell’articolo, che cita il “Notiziario straordinario n. 17 del 10 settembre 1986 del Csm”, che certo non era in vendita nelle edicole di Regalbuto...). Ma tant’è, l’autorevolezza dell’autore e della testata avevano centrato l’obiettivo e fatto male. Difatti, la polemica sui “professionisti dell’antimafia” non tardò a produrre altri effetti, e a farne le spese fu Giovanni Falcone. Nel 1987 Antonino Caponnetto decise di rientrare a Firenze. Aveva dato molto. Quattro anni di vita “blindata” a Palermo gli erano bastati per mettere a punto il pool (completando il lavoro avviato da Rocco Chinnici) e ottenere lo straordinario risultato del Maxi-processo, la fine del mito dell’impunità di “Cosa Nostra”. Lasciò la Sicilia nell’assoluta convinzione che il suo successore naturale alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo sarebbe stato Giovanni Falcone, uomo di punta del pool. Non fu così.

ALLA CANDIDATURA di Falcone si contrappose (come nel caso Borsellino) quella di un magistrato di ben maggiore anzianità ma digiuno di processi di mafia. L’articolo di Sciascia ebbe un peso fortissimo e venne ampiamente strumentalizzato. Nel Csm, spesso richiamandosi proprio a tale articolo, molti di quelli che avevano votato per Borsellino cambiarono idea, pur in una situazione tutt’affatto identica. Risultato: questa volta la maggioranza si espresse non per il più bravo nell’antimafia, ma per il più anziano, anche se non esperto di mafia. E dire che il concorrente di Falcone aveva ben chiarito al Csm come la pensasse: lui del pool, del “metodo Falcone”, non sapeva che farsene; se fosse stato nominato avrebbe subito cancellato la collaudata squadra di specialisti che ormai da tempo si occupava soltanto di “Cosa Nostra” accumulando esperienze sempre più preziose; i magistrati del suo ufficio avrebbero dovuto occuparsi di tutto un po’.

DETTO FATTO: il magistrato preferito dal Csm a Falcone una volta nominato frantumò le inchieste su “Cosa Nostra” e le parcellizzò in mille rivoli, senza alcuna comunicazione o circolazione di dati. La specializzazione e la centralizzazione (parametri vincenti nel contrasto del crimine organizzato) furono relegate in soffitta. A un passo dalla vittoria, si rinunziò a combattere e si ricominciò a sparare a salve, mentre sul Palazzo di Giustizia di Palermo presero a volare corvi e corvacci che spandevano veleni di ogni sorta su Giovanni Falcone, calunniato per nefandezze varie (ovviamente inesistenti) fino a costringerlo ad emigrare da Palermo.

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